Barnaba e il dono di sé

Sandro Botticelli, Pala di San Barnaba, 1487 tempera su tavola 268×280 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze

San Luca al capitolo 4 degli Atti degli Apostoli presenta un secondo sommario (il primo era al capitolo 2) nel quale delinea le caratteristiche delle prime comunità cristiane: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4,32-35). Questo sommario mette a fuoco un tema caro a Luca: l’unità dei cuori trova un riflesso immediato, per la comunità dei credenti in Cristo, nella comunione dei beni materiali. I sommari di Luca sono spesso definiti l’utopia delle origini, ma in realtà secoli e generazioni di credenti, prelati e vescovi, monaci e monache, religiosi e religiose, laici celibi e sposati, si sono continuamente ispirati a questa regola di vita. Luca non ha promosso però (e l’antica Regola agostiniana lo testimonia) un’uguaglianza fra i membri della comunità intesa come livellamento del tenore di vita ma, al contrario, ha incoraggiato il superamento del confronto vicendevole perché ciascuno fosse considerato e aiutato a partire dal bisogno personale. Dopo la descrizione della prima comunità cristiana ecco che Luca offre, come in una sorta di dittico, gli esempi di Barnaba e quella di Anania.
La vicenda di Barnaba conclude il capitolo 4 ed è esplicitamente citata come esemplificativa di quanto affermato sopra, tanto che il testo inizia, appunto con un «così»: “Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Bàrnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli” (At 4,36-37). Benché si tratti di uno schizzo brevissimo, in questi due versetti si traccia un ritratto solare e denso di particolari: il nome proprio, Giuseppe; il soprannome, Barnaba; il significato del soprannome; la tribù di appartenenza, Levi e il luogo di origine, Cipro.
Giuseppe sembra essere molto conosciuto dagli apostoli, infatti il soprannome Barnaba, non solo lo distingue dagli altri eventuali (e probabilmente numerosi) Giuseppe, ma stigmatizza anche lo speciale dono che egli aveva da Dio, quello di esortare e consolare. Luca, dando la spiegazione del soprannome, fornisce al lettore non tanto la traduzione letterale, quanto il senso che veniva comunemente dato all’appellativo. Sembra infatti che Barnaba significhi più probabilmente «figlio della profezia» (dall’aramaico bar = figlio e nebuáh = profezia). Esortare era comunque, secondo san Paolo (cfr. 1 Cor 14,3), il carisma principale dei profeti. Il fatto poi che, a Giuseppe, il soprannome venga assegnato direttamente dagli apostoli, conferisce al nomignolo il valore di un nome nuovo, di una nuova identità in vista dell’appartenenza alla comunità.
Nonostante il comportamento di Barnaba non fosse certamente unico, poiché era consuetudine fra i cristiani mettere ogni cosa in comune, il versetto 37 ci rivela come la generosità di Barnaba fosse particolare. Secondo il diritto ebraico, i discendenti della tribù di Levi, e dunque anche lo stesso Barnaba, non potevano avere né possedimenti, né eredità, almeno in terra di Israele. Quel campo venduto da Giuseppe era certamente ubicato fuori dalla Terra Santa (forse nella stessa isola di Cipro dalla quale egli proveniva) e doveva essere l’unico suo possesso. Egli dunque vende, col campo, tutto ciò che ha e consegna l’intero ricavato agli apostoli. Cosa che, come vedremo, non faranno Anania e Saffira.
La radicalità e disponibilità di Barnaba a condividere tutto di sé si mostrerà vera anche lungo tutto il racconto degli Atti. Sarà Barnaba, ad esempio, a presentare Saulo ai discepoli, i quali faticavano a credere nella conversione dell’antico persecutore, esortandoli a fidarsi di lui (At 9,27). Sarà ancora Barnaba a constatare, ad Antiochia, la conversione dei primi pagani e a esortare i fratelli a perseverare confidando nell’aiuto di Dio (At 11,23-24). Ancora Barnaba affiancherà Paolo nella missione ritirandosi progressivamente e con umiltà di fronte al carisma missionario dell’Apostolo delle genti; implicato poi, in un litigio fra Paolo e Marco egli farà da paciere fino ad ottenere la riconciliazione fra i due. Da questi soli accenni vediamo emergere il profilo di un uomo fedele al dono ricevuto, quello indicato dal soprannome conferitogli dagli apostoli: esortare e consolidare i fratelli nella fede. Possiamo dunque intuire che il dono gratuito e immediato della sua eredità fu segno e preannunzio di quell’offerta generosa che egli fece di se stesso a Dio e alla comunità.
Una bella opera di Botticelli, dal titolo Pala di San Barnaba, ritrae il nostro santo mentre conversa con sant’Agostino. Se il grande Dottore della Chiesa è ritratto mentre scrive le sue Confessioni, Barnaba regge, invece della palma del martirio (che ha conseguito come tutti gli apostoli), un ramoscello di ulivo, simbolo della sua ricchezza d’animo, d’ingegno e della sua opera di pace. Insieme con l’ulivo Barnaba tiene anche un libro: il vangelo di Matteo. Secondo la tradizione egli morì a Salamina lapidato e con in mano questo Vangelo. Si solleva così anche un’altra piega amara nella vita di questo grande apostolo: pur essendo stato tanto vicino a Marco egli adottò per la sua predicazione il vangelo di Matteo. Forse lo condusse a questa scelta, la prudenza e la necessità di mantenere l’equilibrio nei rapporti. Proprio per questo egli rimane l’esempio di come nella Chiesa le contraddizioni e le liti non devono spegnere lo spirito, ma rafforzare la volontà di donarsi per realizzare quell’essere un cuore solo e un’anima sola, principio e senso dell’essere fratelli in Cristo.

suor Maria Gloria Riva, novembre 2022