Beati gli affamati e assetati di giustizia (Giugno 2018)

Mosaico della pavimentazione antistante alla Basilica delle Beatitudini nei pressi di Tabgha Galilea, Israele. Part. degli affamati e assetati di giustizia.
Ci troviamo ancora davanti alla Chiesa delle beatitudini in Terra Santa e guardiamo il mosaico pavimentale che adorna il piazzale. L’artista individua tra gli affamati di giustizia anzitutto Noè. All’interno del mosaico compare, infatti, la scritta Latina vir justus inter generatione sua citazione del libro della Genesi (Gen 6,8), Noè fu un uomo giusto entro la sua generazione. Il Nuovo Testamento, e precisamente la seconda lettera di Pietro, lo definisce addirittura banditore di giustizia (2Pt 2,5). Secondo il midrash Dio aveva chiesto di piantare alberi precisi 120 anni prima del diluvio, certo che all’ora stabilita tali alberi sarebbero stati in grado di soddisfare le esigenze della costruzione di una imbarcazione tanto grande. Eppure, racconta il midrash, né mentre piantava i cedri e neppure mentre li tagliava per costruire l’arca, il popolo badò a lui. I suoi contemporanei, invece di approfittare di quei 120 anni, per convertirsi, non considerarono ciò che Noè faceva, ma anzi lo osteggiarono e ostacolarono in vari modi, proprio mentre egli tendeva ad adempiere la giustizia divina. Pareva incredibile ai più che Dio ordinasse di costruire un’arca per navigare nel prato, ma Noè fu fedele al comando divino e ciò gli fu accreditato come giustizia. Noè è, dunque, il giusto che, ben prima di Abramo, ben prima di Mosè, osservò 7 comandamenti, ovvero i comandamenti naturali, inscritti nel cuore umano. Il Talmud ne conta fino a trenta, ma il numero di sette è rimasto nella tradizione. Interessante notare che dei 7 comandamenti noachici 6 sono negativi e uno solo è positivo, il primo, che recita così: adempiere alla giustizia. Noè credette al Signore, sopportò le umiliazioni della sua gente e compì fino in fondo il volere divino diventando salvezza per tutta la sua famiglia e per la natura che lo circondava. Egli salvò, non solo l’umanità, ma anche la terra. Dunque, proprio per aver adempiuto la giustizia divina, fu perseguitato. Egli non avvertì i suoi contemporanei del rischio imminente, si limitò a porre dei gesti, eppure fu ugualmente perseguitato. Forse per questo viene qui annoverato fra gli affamati della giustizia. Nella storia della Chiesa brilla come esempio di fame e sete di giustizia il grande padre Agostino. Egli fu talmente sensibile alle sfide del suo tempo, alle eresie e a quelle dottrine che avrebbero minato l’ortodossia della Chiesa, che non trascurava nessuna domanda. Egli stesso ebbe a dire che nulla aveva mai scritto se non per amicizia, amicizia nel senso Cristiano del termine, cioè quell’amare l’altro non solo sentimentalmente ma perché si compia in lui il suo destino eterno. Così egli non trascurò alcuna delle domande degli amici ma vi rispose raddrizzando il corso della storia quando prendeva piede e forma una logica diversa da quella del Vangelo. Osservava Agostino che, diversamente da chi ricorre al medico per una ferita, la quale si rimarginerà, chi ricorre al cibo per la fame sa che avrà fame di nuovo. Abbia dunque fame e sete il nostro uomo interiore – concludeva il vescovo d’Ippona – perché ha un cibo suo proprio e una sua propria bevanda. L’uomo interiore, infatti, ha fame e sete di quella verità divina che potrà essere soddisfatta pienamente solo in Cielo, ma che qui ha bisogno di trovare ristoro. Si comprende meglio dunque, confrontando Agostino con Noè che la fame di giustizia di cui si parla nel Vangelo è fame e sete di verità. E che coloro che sono beati in questo campo, con la loro stessa fame e la loro sete saziano gli altri, che già toccati dal male dell’anoressia del peccato ricusano di prendere il cibo buono della grazia. Il dito puntato verso questa soddisfazione ultima e definitiva della fame di giustizia la offre l’ultima scena di questo grande girale. Si tratta di un rimando, come recita la scritta latina (quo, Domine, non vindicas sanguine nostrum), a un passo dell’Apocalisse (6,9-10). All’apertura del quinto sigillo, Giovanni racconta: «Vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che gli avevano resa. Essi gridarono a gran voce: “Fino a quando aspetterai, o Signore santo e veritiero, per fare giustizia e vendicare il nostro sangue su quelli che abitano sopra la terra?”». Costoro sono i martiri, chiamati dalla Vulgata latina (come si legge nel mosaico) animas interfectorum, cioè le anime degli uccisi. Essi sono affamati di giustizia a motivo della loro morte cruenta a causa del Vangelo, ma alla loro richiesta di vendetta l’Apocalisse risponde: «A ciascuno di essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po’ di tempo, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro». Nel mosaico vengono simbolicamente rappresentate quattro anime, rimando ai punti cardinali, e dunque alla dimensione universale del martirio. I martiri della giustizia sono diffusi in ogni luogo e latitudine. Il loro sangue, similmente a quello di Abele e in unione all’ancor più prezioso sangue del Redentore, grida al cospetto di Dio. Il nostro mosaicista assegna, dunque, la beatitudine degli affamati e assetati di giustizia, a quanti difendono la fede con l’obbedienza alla verità fino al dono della vita.
suor Maria Gloria Riva
Monache dell’Adorazione Eucaristica – Pietrarubbia