Beati i poveri in spirito (Marzo 2018)

Mosaico della pavimentazione antistante alla Basilica delle Beatitudini nei pressi di Tabgha Galilea, Israele. Part. dei poveri in spirito

La basilica delle Beatitudini, in Terra Santa, gode di un panorama straordinario. Per questo, e per lo scarso valore artistico, quasi nessuno, uscendo dal portico ottagonale della chiesa, si sofferma a contemplare il mosaico pavimentale che adorna il piazzale antistante. Eppure dal punto di vista iconografico è un progetto interessante che tenta una rilettura fra la beatitudine, un personaggio dell’antico testamento, uno del nuovo e un santo della storia della Chiesa. L’incastro è affascinante e mostra come oltre a Gesù, il quale ha incarnato tutte le beatitudini, anche prima e dopo di lui qualcuno, obbedendo alla Rivelazione, ha saputo vivere almeno uno di questi nuovi dettami della legge cristiana. La pavimentazione del piazzale raffigura una grande vite cosmica che abbraccia con i suoi girali ogni latitudine. È segno del Vangelo il quale, se vissuto con fede e coerenza, porta frutto laddove il 60, l’80, il 100 per uno. La prima beatitudine, che porta in sé il seme di tutte le altre, è racchiusa in uno dei primi girali proprio davanti alla basilica. Chi si siede affaticato per il percorso fatto a piedi, la vede immediatamente. Vi sono tre figure: il beato Giobbe, la nave della Chiesa e san Francesco. Le tre immagini correggono il tiro, semmai avessimo dato alla parola poveri il senso letterale di «indigenti». Matteo, che parla a un pubblico giudaico, fa riferimento agli anawim, ai cosiddetti poveri di Jahvè che non necessariamente vivevano nella povertà, ma che certamente vivevano nell’abbandono e lontani da ogni cupidigia. Facevano parte degli anawim Zaccaria ed Elisabetta, facoltosa famiglia di Ain Karim che possedeva due case e godeva dell’aiuto della servitù. Ma è considerato un anawim, un povero di spirito anche Giobbe, protagonista immaginario di uno dei libri più letti e citati dell’Antico testamento. Un personaggio inventato eppure tra i più amati dalla tradizione giudaico-cristiana. Giobbe incarna esattamente l’ideale del giusto, povero in spirito e benedetto da Dio. Egli, come sappiamo, era ricco ma onesto, usava delle sue ricchezze per fare il bene, ciò nonostante si abbatté su di lui la sventura. Come può, dunque, ed è la domanda di tutto il libro, il giusto, timorato di Dio, soffrire? Come può un uomo onesto ridursi in povertà dopo aver servito Dio con sincerità e zelo? Da questa prima figura, atta a illustrarci la prima beatitudine, emerge a tutto tondo il senso della parola povero in spirito. È povero chi non accampa diritti verso Dio, chi serve Dio non per averne qualcosa, sia pure un giustificato bene, ma chi serve Dio per Dio e che, appunto per questo atteggiamento gratuito e disarmato, può dire, come è riportato nell’affresco in latino: «Il Signore ha dato il Signore ha tolto, benedetto il nome del Signore». Giobbe alla fine della sua vicenda tornerà a essere ricco, anzi ricchissimo, ma rimarrà un povero fedele a Dio nel molto e nel poco. L’immagine della nave con l’uomo in piedi è di non facile interpretazione. Alcune guide la definiscono arca di Noè, ma ciò è impossibile perché Noè è rappresentato altrove. Si potrebbe pensare allora a Giona e alla sua avventura sul mare mentre scappava dal comando divino, ma questo romperebbe la scansione dell’iconografia che vuole un riferimento all’Antico Testamento, al Nuovo e alla storia della Chiesa. Si tratta dunque senz’altro di un riferimento al Nuovo Testamento. La barca è probabilmente un’allusione alla barca di Pietro anche perché l’albero maestro ha una sorta di tridente, antico simbolo trinitario. Il vento in poppa soffia grazie a una colomba, segno dello Spirito di Cristo. L’uomo non è in pantaloni, come potrebbe sembrare a un primo sguardo, ma ha davanti a sé la mitria. Si tratta dunque della barca della Chiesa che solca il mare della storia. C’è un episodio occorso a San Paolo poco conosciuto (in quanto assente dal ciclo liturgico) estremamente significativo in merito. Come Giona anche San Paolo, come si narra al capitolo 27 degli Atti, mentre navigava per l’Italia con altri prigionieri vide scatenarsi una tempesta nei pressi di Malta. Il comandante della nave e l’equipaggio, temendo il peggio, giunsero alla determinazione di uccidere tutti i prigionieri per potersi salvare con scialuppe. Paolo invece suggerì di aspettare, di avere fiducia in Dio e di liberarsi di tutto ciò che era di troppo. Digiunarono per aver salva la vita e rimasti con le sole provviste, Paolo li convinse a prender cibo. L’Apostolo rese grazie ed essi mangiarono poi buttarono a mare le anfore con dentro il frumento per rendere ancora più leggero lo scafo. Come aveva previsto san Paolo la nave si sfasciò ma tutti furono salvi. L’episodio, ricco di significati, rappresenta la Chiesa capace di salvare l’uomo prigioniero dei suoi peccati grazie al ministero degli apostoli e dei loro successori. Ecco allora che nel mosaico pavimentale del monte delle Beatitudini questo episodio diventa il segno della capacità di affidarsi e di rinunciare a molte cose pur di avere la salvezza, così come fecero quei naviganti seguendo il consiglio di Paolo. L’ultimo esempio offertoci dal mosaico non ha bisogno di molti commenti: si tratta, infatti, di san Francesco. Con lui si vuole dimostrare come, nella storia della Chiesa, ci siano santi che hanno vissuto alla lettera la povertà coniugando mirabilmente l’aspetto spirituale con quello materiale. Il mosaico ritrae il momento in cui Francesco restituisce gli abiti al padre e si affida alla paternità di Dio mediata dalla Chiesa. Nel “poverello d’Assisi” fu evidente che il punto centrale della sua intuizione spirituale non fu tanto l’indigenza come valore (che del resto non è), quanto l’abbandono totale alla provvidenza, caratteristica principale trasmessa dalla prima beatitudine.
Monache dell’Adorazione Eucaristica Pietrarubbia