«Così io mando voi…»

Tutti discepoli in missione
«Alle prime luci dell’alba…»: l’invito è di restare con mente, cuore e volontà nell’avvenimento pasquale. Ne abbiamo particolarmente bisogno in questi giorni bui della pandemia. Credo sia per tutti noi un’esperienza sempre nuova, consolante, incoraggiante, stare col Risorto. Vorremmo, anzi, che le nostre comunità, superando stanchezze e abitudini, si ritrovassero in questa novità. Abbiamo tentato in questi anni di declinare la gioia del Vangelo riproponendo il cuore della nostra fede: «È risorto il terzo giorno». Gesù è vivo, è in mezzo a noi. Abbiamo ribadito tante volte che non siamo nel “dopo-Gesù”, al contrario, viviamo dello splendore della Pentecoste. Fu questa la chiave con la quale abbiamo riletto, negli anni scorsi, gli Atti degli Apostoli, la Prima Lettera ai Corinti, la Prima Lettera di Pietro… e tante altre pagine del Nuovo Testamento. I nostri Programmi pastorali sono stati dei tentativi per riportarci all’essenziale cristiano, per non lasciarci travolgere dallo spirito di tristezza o di amarezza. Il cammino continua anche dopo l’abbattersi su di noi del Coronavirus. In verità, c’è chi sottolinea come il virus abbia scompaginato ogni programma ed ogni agenda e ne trae una conclusione saggia forse, ma anche minimalista: facciamo a meno dei programmi. C’è chi, invece, propone di ripartire proprio dall’esperienza vissuta per considerare che cosa abbia detto alla comunità, alle famiglie e a ciascuno e come questa esperienza ci abbia messo a nudo, come ci abbia ammaestrato. C’è chi vorrebbe andare oltre, forse un po’ stanco dell’impatto mediatico che ha avuto l’epidemia in questi mesi, con l’abbattersi impetuoso dei bollettini quotidiani di contagiati e di morti. Credo sia necessaria una posizione equilibrata. Una lettura pasquale dell’esperienza della pandemia non può prospettare il semplice ritorno alla situazione di prima: una parentesi da chiudere al più presto. Preferisco rilanciare l’esperienza come parenesi, cioè esortazione a maturare un’esistenza diversa. Risuonano ancora le parole di papa Francesco: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è sempre fatto così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (EG 33). Andiamo avanti nel Programma pastorale che, prendendo le mosse dall’evento pasquale e dal suo annuncio, ha come obiettivo una sorta di nuova iniziazione cristiana. E tutto questo senza ignorare quanto è accaduto, facendone oggetto di riflessione. Di per sé parlare di nuova iniziazione sembra un controsenso. Il lettore prenda l’espressione nel suo significato provocatorio. Una nuova iniziazione appare come un proposito eccedente rispetto alle nostre risorse, alla vastità degli ambiti, alla complessità dei mondi… Nei due anni che abbiamo davanti ci proponiamo, personalmente e insieme, di fare esercizi di missionarietà. La missione è una dinamica intrinseca al Vangelo e alla vita cristiana. Non sembri inopportuno il riferimento alla vita e al dinamismo trinitario. Nella Trinità ciascuna delle tre Divine Persone vive per l’altra, si dona perdendosi e ritrovandosi nella comunione con l’altra. Questo dinamismo effusivo si espande, per amore e nella libertà, nella creazione, con la “missione del Verbo nell’incarnazione”: «Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio» (Gv 3, 16). C’è un’altra “missione invisibile e reale”: l’effusione dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. C’è un’icona su cui potremmo indugiare con la nostra meditazione: Gv 20, 19-22. Il Risorto entra nella semioscurità del cenacolo – «era sera» –, dove è riunita la comunità dei discepoli, una comunità chiusa nella paura, prigioniera delle sue perplessità. Gesù porta il dono della “shalom”, la pace, da intendere come somma di tutti i beni messianici. È una donazione totale, senza misura. Gesù accompagna il dono con un gesto che ripropone l’esperienza del soffio vitale col quale il Creatore ha fatto vivere l’uomo della sua stessa vita: «Ricevete lo Spirito Santo». L’effusione è spiegata da Gesù stesso. Si tratta di partecipare alla sua stessa missione: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi». Un lampo simile era balenato nel discorso missionario di Gesù (Mt 10): «Chi accoglie voi, accoglie me, chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (un detto importante visto che nel Vangelo di Matteo viene ripetuto per ben due volte). Gesù affida alla sua comunità la buona notizia della remissione dei peccati. C’è mistica, cioè stupore, incanto, meraviglia, ma tanta concretezza. Basta vedere, ad esempio, come Gesù rilegge l’oracolo di Isaia nel discorso inaugurale nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore è su di me e mi ha mandato ad annunciare ai poveri il lieto messaggio…». Sono le opere del Messia; è il programma apostolico per quelli che Gesù invia. Altrettanta mistica e concretezza nella vita di Paolo: dalla vocazione carismatica alle migliaia di chilometri che ha percorso, dalla visione notturna alla messa in opera: l’impresa di evangelizzare i macedoni e la fondazione della comunità del più improbabile degli scenari, Corinto. Mistica e concretezza nella storia bimillenaria della Chiesa. Quello che la Chiesa è per noi lo deve essere attraverso noi. La Chiesa ha per unica missione rendere presente Gesù in mezzo agli uomini. Essa deve annunciarlo, mostrarlo, darlo a tutti. Il resto non è che un di più. Essa è e sarà sempre, in tutta verità, la Chiesa del Cristo: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». È necessario che, attraverso noi, Gesù continui ad essere annunciato, che attraverso noi continui a trasparire. Tutto questo è qualcosa di più di un obbligo: è, si può dire, una necessità organica. Attraverso la nostra testimonianza la Chiesa annuncia veramente Gesù Cristo?

+ Andrea Turazzi, luglio-agosto 2020