Cristo sale sulla croce (Marzo 2017)

Primo Maestro di Sant’Antonio, Coro del Monastero (XIV sec.), affresco, Sant’Antonio in Polesine, Ferrara

A Ferrara, nel Coro del Monastero Sant’Antonio in Polesine, un autore di scuola giottesca del XIV sec., denominato primo Maestro di Sant’Antonio, realizza un singolare affresco. L’opera mostra sinteticamente e con grande profondità teologica il Kerigma: Cristo, nato per noi, ha patito per mano di empi, è salito sulla croce, è morto per la nostra salvezza ed è risorto per farci entrare con lui nella gloria. Alla stregua di un fumetto, l’opera, lungi dal voler rappresentare il “reale”, insegna il Mistero a quella comunità di monache che, ancora oggi, prega in quel luogo. Al centro dell’affresco sta la croce, solidamente piantata sul calvario come stadera sulla montagna, alla quale Cristo appoggia una scala e vi sale. Sì, è un giudizio quello qui operato, un giudizio sulla storia e sull’uomo che stravolge le categorie umane. Sui bracci orizzontali della croce stanno due personaggi i quali, come operai e carpentieri, porgono a Cristo i chiodi del supplizio. Il braccio destro è leggermente più allungato dell’altro, quasi a voler indicare la rotta infinita della misericordia divina. Infatti, se sul lato sinistro dell’affresco stanno gli accusatori di Cristo e Longino che con la lancia gli colpisce il costato, sul lato destro vediamo un singolare personaggio dal mantello bianco e i soldati romani che tirano a sorte la tunica tessuta tutta d’un pezzo, indossata da Gesù. La luminosità della roccia, a destra, si contrappone con l’oscurità che avvolge i personaggi di sinistra. Cristo stesso, salendo sulla croce, è rivolto verso il lato destro dell’affresco indicando così il senso di quell’ora che è venuto a compiere. «C’è un battesimo che devo ricevere – aveva detto Gesù un giorno –, e come sono angosciato finché non l’ho ricevuto» (Lc 12,50). E ancora: «Io ho il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Frasi rivelatrici che indicano la liberalità e la gratuità con cui Gesù accetta il suo sacrificio. I pioli che portano Cristo sulla croce sono tre, particolare non casuale se si pensa che in moltissimi casi, nelle Via Crucis o nelle scene della Passione, compaiono tre gradini. Essi rappresentano simbolicamente i tre giorni dei patimenti di Cristo, ma anche le persone della Trinità che, insieme, accettano l’ignominia della Croce. L’ignoto personaggio che sta alla destra del patibolo potrebbe essere Giovanni, l’evangelista che, entrando nel sepolcro vide il telo sindonico e credette alla risurrezione (Gv 20,8). Il mantello luminoso che indossa prefigura proprio quella risurrezione di cui sarà testimone. Ma potrebbe raffigurare anche il centurione romano che, secondo l’evangelista Marco, disse: «Costui era veramente il Figlio di Dio» (Mc 15,39), o, ancora, il giovinetto che nel giardino del Getsemani fuggì via nudo coperto solo da un lenzuolo (Mc 14,52), altra prefigura marciana del telo sindonico. In ogni caso quest’uomo è ivi collocato per narrarci l’esito del gesto scandaloso di Cristo: la vittoria sul male e sulla morte. Con il gesto della mano questi indica i due soldati che stanno tagliando la tunica di Cristo, rimando tanto al Corpo di Cristo, spezzato sulla croce per lasciare fluire il sangue della Redenzione, che alla divisione della Chiesa, per la quale, come ebbe a dire Pascal, Cristo resta in croce fino alla fine del mondo. L’oscurità che regna alla sinistra dell’affresco racconta, del resto, il mistero dell’iniquità, sempre in atto nel mondo. Ma è proprio da quest’oscurità che si libera una via di salvezza. Infatti anacronisticamente Longino è qui rappresentato mentre già ferisce il costato di Cristo aprendo all’uomo una via nuova e salutare: quella dei sacramenti. Significativo è il fatto che, per quanto buio, questo lato dell’affresco non è privo di luce, un discepolo (Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea?) veste l’abito bianco della fede. Veste l’alba, tunica distintiva prima dei battezzati e poi dei sacerdoti. Per contro, anche il lato luminoso, quello di destra, non è privo di ombre anzi, proprio dietro al monte del Calvario il cielo si fa più plumbeo e minaccioso. Le monache benedettine che sostavano (e sostano) in preghiera davanti a quest’opera erano educate così a comprendere quel già e non ancora che caratterizza tanto la storia della Chiesa quanto la storia personale di ciascuno di noi. Di fronte allo scandalo del male, presente ovunque si trovi un uomo, il rimedio che Cristo indica è quello, sul suo esempio, di offrirsi spontaneamente e liberamente vittime, soffrendo per i peccatori. I sacramenti dunque, scaturiti dalla sorgente viva del costato di Cristo, rendono anche noi via nuova per le genti, nella misura in cui li lasciamo operare nella nostra vita secondo l’esempio del Salvatore il quale, non per forza, ma per amore salì sulla croce, mirando alla nostra salvezza e alla volontà misteriosa del Padre suo.
Suor Maria Gloria Riva
Monache dell’Adorazione Eucaristica Pietrarubbia