Il Monte delle Beatitudini e l’opera di un anonimo olandese (Febbraio 2018)

Le Beatitudini (1553), olio su pannello, cm 124x104x124x46x124x46,4 Museo delle Belle Arti di Gand

Molti dei luoghi della Terra Santa, in cui si ricordano eventi ed episodi legati alla vita di Gesù o addirittura dell’Antico testamento, sono documentati. Solo alcuni sono incerti e uno di questi è il luogo dove sorge la Basilica delle Beatitudini. È tuttavia affascinante rileggere, mentre si salgono le pendici di questo modesto e ridente colle, detto Eremos, le parole di un’antica pellegrina del quarto secolo. Nel 383 circa, Egeria o Eteria, ritenuta dai più – forse erroneamente – una monaca, narrò alle sue sorelle la visita a Cafarnao e a Tabga: «Presso le sette sorgenti (Ma-gadan Tabgha) lungo il pendio del monte c’è una grotta sopra la quale il Signore salì quando annunciò le Beatitudini». La grotta è ancora visibile ed è chiamata dagli arabi Mughara Ayub, ovvero Grotta di Giobbe. Il panorama che si gode dall’Eremos è incantevole: in un solo sguardo si contempla il lago con i paesi circostanti. Essendo un’altura rocciosa e per lo più incolta Gesù poteva, senza danno per i contadini, raccogliere attorno a sé tanta gente. Lo splendore delle fioriture che a primavera coprono questo monte gli ha meritato il nome arabo di «occhio di Dio». Un’opera olandese di grande efficacia ci presenta le beatitudini proprio a partire da questo occhio di Dio. Pare che l’anonimo artista del XVI sec. abbia potuto vedere, o conoscere attraverso stampe e disegni, quello che la pellegrina Egeria descrive nel suo Diario. Si tratta di una grande tavola lignea con nove scomparti.
Uno centrale più grande degli altri e altri otto piccoli scomparti che raffigurano le beatitudini. Nell’attuale basilica delle beatitudini, la cui struttura architettonica ad opera di Barluzzi riprende, tra l’altro, basilica del IX secolo dell’Annunciazione distrutta dai mammelucchi, si trova un dipinto di Carl Heinrich Bloch che evoca il paesaggio antico del monte Eremos. Uno stesso paesaggio compare nello scomparto centrale del nostro autore olandese e riprende in certa misura quello che osservò Egeria in quel lontano IV secolo. L’occhio di Dio è ben visibile nel cielo delle beatitudini, proprio sopra il Salvatore che, seduto su di uno sperone roccioso, predica la nuova torah.
Come Israele, nel deserto, terra di tutti, aveva ricevuto la luce della torah da Mosè sul monte Sinai, Gesù, quale nuovo Mosè, promulga sul monte la torah della nuova alleanza. Noi siamo soliti tradurre Torah con la parola legge, in realtà il termine è riduttivo. Torah è l’antico grido mediante il quale i pastori dirigevano il gregge, perciò Torah non è solo un insieme di norme e di codici, ma è anche esortazione e guida alla vera vita. A maggior ragione allora non si può parlare delle beatitudini come nuova legge, esse sono molto di più, sono una guida a quell’atteggiamento radicale che porta a comprendere, non solo lo spirito della legge antica, ma anche la volontà di Dio sull’uomo per tutti i tempi e i secoli, una volontà che Gesù ha incarnato nella sua vita con perfezione. Lo capiamo dall’atteggiamento di Cristo che, nel pannello del Museo di Gand, porta una mano al cuore, mentre con l’altra indica verso l’alto, verso un cartiglio che sta alle sue spalle e il nome di Dio che sta sopra di lui. In effetti, il cartiglio rimanda al passo di Isaia che Gesù, secondo il Vangelo di Luca, legge nella sinagoga di Nazareth: Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato per portare buone notizie ai poveri. Gesù, poi, veste il viola, colore del cambiamento, colore che la Chiesa usa in Avvento e in Quaresima, proprio per significare l’invito alla metanoia, al cambiamento della mentalità. L’autore disegna, dunque la Trinità: il Nome divino in alto, lo Spirito e, sotto, Gesù, il Maestro per eccellenza. Da un lato si scorge Gerusalemme, dall’altro un monte, memoria di quel Sinai dal quale già in antico Dio vide le sofferenze del suo popolo. Anche da questo monte Gesù vede. Lo rileva Bonhoeffer nel suo libro Sequela. Vede come vedeva Dio dal roveto ardente. Vede le folle, i discepoli avvicinarsi. E quanti si avvicinano a lui, si avvicinano anche a quel regno dei cieli che egli è venuto ad annunciare: Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4, 17). Quanti lo seguono sul monte, lo seguono nel disagio e nelle privazioni, sono cioè disposti a lasciare le loro comodità per le esigenze del regno. Gesù allora prende la parola. Dietrich Bonhoeffer, ancora in Sequela, vede nel verbo greco qui usato l’allusione a qualche minuto di silenzio. È il silenzio prima della parola, lo stesso silenzio che regna prima degli interventi di Dio nella storia degli uomini. È bello pensare che da questo silenzio sgorga un grido: Beati! È l’inizio della nuova Torah che percorre tutto il primo testamento. L’espressione designa un genere letterario detto macarismo, dalla parola greca macarios che significa appunto beato, felice. In ebraico l’espressione suona così: ashrè! Nel primo testamento viene ripetuta 45 volte ed è riferita soprattutto ai pii, agli osservanti della legge, studiosi, integri nella condotta. Gesù propone qui una novità nella continuità, beati non sono solo i più sapienti o i pii, ma i poveri, gli oppressi, i perseguitati a causa della legge divina. L’artista olandese nella variopinta folla ritrae diverse categorie di persone. Alcuni sono vinti dal linguaggio di Gesù, altri invece restano in piedi come guardinghi. Alcuni in primo piano, vestiti alla turca confabulano. Si trova qui forse un’allusione a quella invasione ottomana che a quel tempo minacciava tanto i luoghi santi che l’Europa. In ogni caso il programma dettato sul monte con quell’incipit: ashrè, disegna un cammino. Ashrè in ebraico deriva dalla radice ashar, cioè camminare e, sempre in ebraico, l’etica è detta derek, cioè cammino. Ma l’altro termine con cui si può definire il beato è baruk, cioè: benedetto, la cui radice barak fa invece riferimento al ginocchio. Barak significa infatti anche inginocchiarsi. Si comprende bene, allora, come la nuova legge di Gesù vada accolta in ginocchio cioè in un atteggiamento di preghiera e di ascolto. Non è una legge che viene dall’uomo, ma viene da Dio. Le beatitudini sono l’identikit di Gesù. La scritta in alto nel pannello centrale, infatti, cita il Salmo 83/84: Beato chi abita nella tua casa senza fine canta le tue lodi, mentre il cartiglio tra il Nome divino e lo Spirito, rimanda al capitolo 15 di Matteo dove Cristo si presenta come l’unico Maestro: Egli ti ha dato un Maestro di giustizia. Ascoltalo! Ora, guardando al paesaggio retrostante, si comprende bene tutto il senso dell’opera. Perché, infatti, riprodurre Gerusalemme e il monte Sinai? Perché vale per i beati ciò che Cristo rivelò alla Samaritana: Né in Gerusalemme né su questo monte si adora il Padre, ma il Padre cerca adoratori in spirito e verità. Nonostante molti siano all’ascolto e in ginocchio, l’anonimo olandese (che dipinge peraltro dopo la questione calvinista e la conseguente lotta contro le immagini) ci invita a scrutare tra la folla: chi è vero adoratore? Chi veramente cammina con le ginocchia del cuore prostrate, davanti all’unico Maestro. Questi è colui con il quale ci dobbiamo identificare.
* Monache dell’Adorazione Eucaristica Pietrarubbia