Il Natale in un tabernacolo di San Marino (Dicembre 2017)

Immagine: Tabernacolo con Presepio, legno dorato e intagliato dorato e dipinto, 1478-1529 Bottega dei Fratelli de Donati.

Natale e Pasqua nella coscienza cristiana sono sempre stati legati. Laddove si proclamava il Cherigma: Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici, si annunciava implicitamente l’Incarnazione. Il Cristo, risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, è la seconda Persona della Trinità, è il Verbo che ha preso carne nel grembo purissimo della Vergine Maria. I vangeli di Matteo e Luca, redatti in tempi diversi e destinati a un diverso uditorio, dedicano uno spazio significativo alla narrazione dell’Infanzia di Cristo. L’arte non di meno documenta l’interesse della cristianità per le origini di Gesù. Già nel IV secolo (quando ancora era difficile trovare una rappresentazione del Cristo crocifisso che inizierà solo nel VI secolo) troviamo nelle catacombe romane immagini della Natività (ad esempio nella catacomba di Santa Priscilla, dove possiamo anche osservare la cometa). E benché si faccia risalire la nascita del Presepe a San Francesco, in realtà sappiamo che liturgicamente il Natale era celebrato già all’epoca di Sant’Ambrogio.
Il primo documento che registra la festa del Natale il 25 dicembre risale al 336 e Marcellina, la sorella di Ambrogio, proprio in questa Solennità prese i voti davanti a Papa Liberio. San Francesco ebbe certamente il pregio di diffondere la realizzazione del Presepe all’interno delle famiglie, nelle contrade attraverso rappresentazioni sacre come appunto il Presepe vivente. Nella nostra Diocesi abbiamo un’opera che ha il pregio di fondere l’aspetto liturgico a quello iconografico; nel Museo di Stato di San Marino possiamo osservare un Tabernacolo del 1478 (o 1529)  uscito dalla bottega dei fratelli De Donati. L’opera è di gran pregio dal punto di vista iconografico soprattutto per il particolare abbinamento fra Natività ed Eucaristia.
La classica forma a tempietto con una cuspide triangolare incornicia l’evento dell’Incarnazione. L’opera di legno intagliato e dipinto è realizzata in oro e tempera azzurra almeno per la scena della Natività. In primo piano si apre una grotta circolare e che, nonostante il bassorilievo, ci appare profonda. San Giuseppe e la Madonna sono in primo piano in adorazione del Bambinello che giace in una mangiatoia posta in mezzo a loro.
San Giuseppe è calvo, come vuole un’antica tradizione. La calvizie testimonia l’anzianità del Santo che era così evidentemente assegnato alla custodia della Verginità della Madonna. Maria si trova in dialogo col Divino infante, lo guarda ed è ricambiata dal Figlio con uno scambio di sguardi tenerissimo. Non mancano il bue e l’asinello, citazioni discrete del libro di Isaia e simbolo dei due popoli che attendono un Salvatore. Isaia, infatti, nel capitolo 1 al versetto 3 recita così: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». L’asino, portando la soma, era considerato simbolo del popolo pagano che portava il peso del peccato senza alcuna possibilità di sgravarsene, non avendo né tempio né sacrificio. Il bue invece, stando sotto il giogo per aiutare il padrone nel lavoro, era simbolo del popolo ebraico che appunto accettava su di sé il giogo della legge per aiutare Dio a estendere il suo Regno in questo mondo.
Simpaticissimo è il gesto del nostro bambinello che accarezza delicatamente il bue, quasi a confermare di essere venuto per compiere tutta quanta la legge e le promesse fatte dal Padre ai patriarchi, a Davide e ai profeti. Sopra la grotta ecco un pastore che pascola il gregge. Se le pecore sono evidenti e dipinte di bianco, il pastore è dorato come la campagna che lo circonda e gli alberi. Un angelo, sempre dorato, appare nel cielo e annuncia il fatto inusitato del Verbo fatto uomo al pastore avvolto in un piviale sontuoso. L’oro indica l’impenetrabilità dell’annuncio, che tuttavia i pastori accolgono con semplicità. Il bianco del gregge invece insegna che il tabernacolo custodisce il vero Pastore di Israele, l’Agnello di Dio, nato da Maria e immolato per la nostra salvezza. Sbuca dal manto di san Giuseppe un abito rosso segno del martirio senza spargimento di sangue che accettò su di sé, al pari di Maria, accettando di essere padre putativo del Redentore. Anche nella cuspide abbiamo un fondo rosso acceso con la figura del Pantocratore: il Cristo, Re e Signore di tutte le cose, benedicente e con il mano il Mondo. In realtà la figurina potrebbe essere identificata anche con il Padre e l’ambiguità è certamente voluta. Era cosa abbastanza comune nel Medioevo realizzare Dio padre con le fattezze di Cristo per quel rimando che Gesù stesso suggerì nei discorsi di addio dell’Ultima cena: chi vede me vede il Padre.
Il rosso sulla cuspide ci racconta del martirio della croce che, per quanto sia assente dalla simbologia dell’intaglio, è evidente nella concezione che allora si aveva del Sacramento. Non c’era bisogno di esplicitare ciò che era universalmente noto: l’Eucaristia è sacrificio in atto del Cristo, qui ed ora, per la nostra salvezza. Là, sul calvario, lo fu in modo cruento una volta sola per tutti i secoli, qui nel Sacramento lo è in forma incruenta come memoriale che attua in ogni generazione la grazia di quel sacrificio. Così il Natale e la Pasqua si uniscono in modo mirabile in questa bella opera rendendo palese una verità che fosse oggi va perdendosi tanto per le mutate concezioni teologiche di fronte al Sacramento che per la confusione generata dall’aspetto commerciale della solennità del Natale.
* Monache dell’Adorazione Eucaristica – Pietrarubbia