Il ritorno a casa e la vera caccia

Pieter Bruegel il vecchio, Cacciatori nella neve, 1565 (117 x 162 cm), olio su tavola, Kunsthistorisches Museum, Vienna (Austria)
Dominano i colori del verde, del bianco e del nero cosicché, sia pure guardando questa scena d’estate, sentiremmo freddo, tanta è la maestria di Bruegel nel restituire sensazioni con il solo ausilio del colore. Si tratta dell’opera Cacciatori nella neve riferita ai mesi invernali di dicembre/gennaio. I cacciatori tornano dai boschi con la loro preda, una lepre caricata sulle spalle. I cani, magri e affamati per meglio affinare l’olfatto nelle battute di caccia, cercano invano cibo nel suolo innevato. Alberi neri e scheletriti disegnano il percorso che scende inesorabilmente verso il baratro. I passi affondano pesanti nella neve soffice: gli uomini sono giovani e forti, sono nel pieno vigore della loro vita eppure si avviano verso un precipizio. Anche noi, casuali spettatori della scena, siamo sul ciglio del burrone, su un pendio che taglia in diagonale tutto il dipinto, tanto simili ai pendii del Montefeltro che si affacciano improvvisi davanti a insospettate valli. Pende dalla locanda l’insegna con la figura di un cervo e di un santo inginocchiato davanti ad esso, è un chiaro riferimento a sant’Eustachio e alla sua conversione. Secondo la leggenda quest’ultimo si chiamava Placido e fu generale pagano, al servizio di Traiano Imperatore. Nomen omen, dicono i latini, così quest’uomo veramente placido era solito dedicarsi ai poveri facendo loro del bene, unica pecca era la persecuzione dei cristiani. Accadde durante una battuta di caccia che, all’inseguire un cervo, si trovasse sul ciglio di un dirupo, il cervo si arrestò all’improvviso e volgendosi verso il generale mostrò fra le corna una croce luminosa. Placido cadde in ginocchio mentre udiva queste parole: «Placido, perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu onori senza sapere». L’episodio fu determinante: Placido si convertì con tutta la famiglia prendendo il nome di Eustachio ovvero Eustachiòs (Colui che dà buone spighe). Così il semplice vessillo di una locanda davvero «insegna», educandoci a leggere correttamente l’opera brugheliana. Da un lato, come dice il proverbio, “sotto la neve pane” (l’incontro con Cristo, maturato nell’inverno, diede frutto in estate per Placido, trasformato ormai in Colui che dà buon raccolto) ma dall’altro: attenzione ai passi che si compiono nella vita e a ciò che si caccia. Se la neve sotto la sua coltre custodisce un buon raccolto, pone però delle insidie nel cammino e scivolare nei dirupi non è difficile. Inoltre cacciare può esser buona cosa per chi è affamato, ma lo è solo quando, accanto alla caccia per la sopravvivenza umana, soggiace la vera caccia per la vita che non muore, ovvero la santità. A caricare di drammaticità l’insegnamento contribuisce anche la scena che si svolge sotto l’insegna: alcuni contadini stanno strinando il maiale appena ucciso. Non si vede l’animale ma ne denuncia la presenza il mastello di legno. Una donna esce dalla locanda e sembra svanire nel fumo, annunciando la fine imminente di tutte le cose. Del maiale, è noto, “si consuma tutto”, nulla si risparmia e rappresenta così una specie di olocausto casalingo. Siamo obbligati, noi tutti, a metterci sulle orme dei cacciatori, i quali stanno tornando verso casa, ma tra noi e il paesaggio che ci sta di fronte vi è un dirupo apparentemente invalicabile. Siamo al termine del ciclo dei mesi e siamo anche in qualche modo al termine della vita. La casa dove si arriva è quella del Padre Celeste e il ghiaccio, la neve, i colori evocano il freddo della morte. Nella vallata tutta italiana che tradisce la visita di Bruegel al nostro paese, si scorgono piccole scene significative di vario genere. Come siamo ormai abituati dal nostro artista, pur apparendo come annotazioni di costume alcune di esse celano un loro messaggio segreto. Proprio sotto al dirupo scene di fatica: un uomo raccoglie la legna per scaldarsi dal freddo, una donna trascina un’altra donna, forse anziana, sul ghiaccio (ed è l’unico punto di colore rosso di tutta la scena) sul ponte una terza donna reca con sé una pesante fascina di legno. Poi ancora, corvi sull’acqua ghiacciata, corvi sugli alberi, corvi e gracchi sopra i cacciatori e, nella casupola proprio alla fine del dirupo, una piagna per l’uccellagione. Nel medesimo specchio d’acqua, diviso da una striscia di terra, ecco invece scene ludiche, di uomini donne e bambine che giocano sul ghiaccio e sullo sfondo un villaggio colmo di pace raggruppato attorno alla chiesa. Il tutto rimanda alle scelte della vita, appunto, a che cosa si insegue e a come si vivono le insidie del male. Bruegel ci spinge ad identificarci con i cacciatori, anche noi stiamo andando a casa e se il cammino verso casa conosce insidie, pericoli e fatiche, la meta promette pace, gioia, felicità e la tranquilla sicurezza di un approdo. Il dirupo rappresenta il guado, il punto della decisione, il freddo e la neve, dicono l’impossibilità di indugiare: la morte viene, come l’inverno, e con la morte sopraggiungono quelle cose ultime che decidono del nostro destino eterno.

suor Maria Gloria Riva, dicembre 2019