La gazza e la forca (Aprile 2019)

Pieter Bruegel il vecchio, La gazza sulla forca, 1568 (45,9×50,8 cm), olio su tavola, Hessiches Landesmuseum, Darmstadt, Germania
Aprile è uno dei dipinti che manca all’appello nella carrellata brugheliana dei mesi. Questa tela, tuttavia, per la sua aria primaverile e, soprattutto per la presenza delle gazze ladre, che proprio in aprile sviluppano maggiormente la loro nidificazione, può egregiamente sostituire il mese mancante. La foschia, che a malapena permette di scorgere i rilievi, lascia intendere come ancora le piogge di marzo abbiano lasciato residui nell’aria e, benché la temperatura sia salita e il sole irradi con la sua forza la campagna, l’umidità permane nella terra ed evaporando sale. Il dipinto prende l’avvio proprio da un evento occorso nella primavera del 1567: Fernando Álvarez de Toledo, III duca di Alba, arrivò nei paesi Bassi con settantamila uomini armati per fermare l’adesione al Calvinismo. I fatti che occorsero da quel momento in poi spinsero Bruegel, un anno dopo, a dipingere quest’opera. Secondo Karel van Mander, grande studioso di Pieter Bruegel il vecchio, questo dipinto è rimasto presso l’artista fino alla fine dei suoi giorni e lo lasciò alla moglie proprio come un tacito testamento. Il monito nascosto in esso è grave e amaro e non è improbabile che di un tale monito l’artista abbia avuto esperienza diretta. Egli, infatti, dipinse la pica (ovvero la gazza) sul patibolo per ammonire le malelingue, le quali sono degne della forca.
L’artista aveva disegnato parecchie simbologie simili, piccanti e amare, qualcuna la fece persino distruggere, temendo che i parenti, dopo la sua morte, potessero aver grane. Il mese di aprile, così spesso legato alla Pasqua e agli eventi della settimana santa, ben si presta, del resto, a un profondo esame di coscienza su ciò che davvero porta alla morte. Non a caso, in un’altra opera che potrebbe essere ambientata in aprile, la salita al Calvario, Bruegel accanto a un corteo di morte che si avvia verso la collina delle croci, pone il palo della tortura, quasi a sottolineare due morti diverse: quella di una condanna senza speranza e quella del Condannato Gesù, la cui morte salva e libera. La vicenda di Cristo echeggia anche in un antico detto cui il dipinto della Gazza sulla forca s’ispira: mandare qualcuno al capestro con le chiacchiere. Furono chiacchiere, o meglio, malelingue gratuite e parole infondate, a permettere la condanna del Figlio di Dio. Di fronte ad esse Cristo ci aveva messo in guardia nel suo Vangelo: «Io vi dico che di ogni parola infondata che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio» (Mt 12,36). Un corteo sale danzando a suon di cornamusa, forse per la consacrazione di una chiesa oppure per i festeggiamenti d’inizio d’anno che al tempo di Bruegel cadeva il 1° aprile.
Siamo, infatti, nel 1568 e l’applicazione del calendario gregoriano, che sposterà al 1° gennaio l’inizio dell’anno, avverrà 20 anni più tardi (1582). Tuttavia quella danza sfrenata che si avvicina pericolosamente al patibolo, sotto gli occhi di due personaggi, sembra proprio stigmatizzare la facilità (e quasi il gioco) con cui le calunnie e le dicerie mandano persone ignare al patibolo. Le due gazze, una sul patibolo e l’altra ai piedi dello stesso, sembrano consapevoli del dramma e in attesa di un esito già noto. Non a caso vicino alla forca si trova una croce, quasi a ricordare la sepoltura di uno dei tanti condannati; la croce poi, guarda verso il mulino con la sua pala che gira instancabilmente e il mugnaio che macina il suo grano. Un tema caro a Bruegel che, già presente nella tela Salita al Calvario, rimanda all’inesorabile resa dei conti della vita. Quante volte si fa esperienza di trovarsi isolati e soli, di avvertire un’improvvisa presa di distanza da parte degli altri senza che se ne conosca la ragione? Quante volte battute amare che stigmatizzano un difetto vero e presunto vanno al cuore? La spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua che la spada, ammonisce il libro del Siracide (Sir 28,18) e Giacomo nella sua lettera rincara la dose: La lingua è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, ma la lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. È dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei! (Gc 3,5-10). E se questo valeva per i primi cristiani, valse per i contemporanei di Bruegel e vale certo anche per noi. Non solo, se questo vale per gli alterchi tra familiari o amici, vale anche nelle lotte fra gli Stati: la lingua è anche focolaio di persecuzioni; le dicerie e i luoghi comuni possono avere effetti devastanti sulle folle esasperate. Due poli contrastanti segnano i termini della riflessione bruegheliana: un paesaggio vastissimo e mozzafiato, colmo di serenità si estende all’orizzonte mentre in primissimo piano, nell’angolo sinistro, un uomo è ironicamente colto mentre sta espletando i suoi bisogni corporali. L’infinito e la miseria umana, la croce e la risurrezione. L’uomo chiamato da Dio a essere a sua immagine imbruttisce talora per cose meschine. La Pasqua che fa di un patibolo un luogo di salvezza diventa monito, davvero, a superare le piccinerie e a puntare cuore e sguardo alle cose grandi che Dio ha già tenuto in serbo per noi.
suor Maria Gloria Riva