La Trinità e le acque del Buon Pastore

Lorenzo Lotto, Trinità, 1519-1520, olio su tela (170×115 cm), chiesa di Sant’Alessandro della Croce. Deposito temporaneo Museo Adriano Bernareggi, Bergamo
Tra le immagini battesimali, una delle più antiche, c’è la figura del Buon Pastore. Il Cristo cioè che va cercando le sue pecore ferite dal peccato e le lava con le acque del fonte battesimale rendendole candide come la neve. L’arte ce ne regala molte, soprattutto l’arte bizantina, ma c’è un’opera davvero singolare che non solo parla del buon Pastore ma racconta l’origine della sua missione: rivelare la Trinità. Del resto noi siamo battezzati non nel solo nome del Cristo, bensì nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Si tratta, appunto, della Pala della Trinità, un’opera di Lorenzo Lotto presente nella sacrestia della chiesa di Sant’Alessandro della Croce (1523-1524), a Bergamo. Un olio su tela dalle dimensioni significative (cm 170×115) che ci offre un’immagine inedita della Trinità. Nel cielo luminoso ma “denso” di luce solare si staglia la sagoma di un’altra Luce. Mai visto nella storia dell’arte un volto del Padre così! Dio Padre è una sagoma di luce da cui proviene il Figlio che appare in quel fulgore con tutta l’evidenza della sua umanità. Egli è luce da luce, ma possiede un volto umano, un nome: Gesù, Dio salva. Il Padre tiene le mani levate al Cielo, il Figlio le braccia distese verso la terra: un abbraccio universale che lega cielo e terra, il luogo di Dio e il luogo dell’uomo e in mezzo c’è il Figlio che è appunto Cristo e Signore. A ben vedere le braccia del Padre e del Figlio formano un quadrato, un quadrato in cui è compresa anche la colomba dello Spirito Santo, il quadrato è la forma geometrica che simboleggia l’uomo, la dimensione terrestre con le sue coordinate spaziali quadripartite: nord, sud, est e ovest. Il quadrato incrociato con un rombo dalle stesse dimensioni forma la stella ad otto punte, simbolo mariano che rimanda al destino eterno che Maria ci ha aperto con il suo sì. Insomma con l’opera della Redenzione la Trinità abbraccia tutta la creazione e lo fa con mani d’uomo. Dell’uomo Dio, Cristo Gesù. Non solo le braccia, ma anche i piedi del Figlio raccontano la sua divinità, Egli poggia su un doppio fascio di luce, una sorta di arcobaleno che rimanda all’alleanza più antica di Dio con l’umanità, quella che precede Abramo, quella noachica (di Noè). Proprio Noè, con il diluvio e il conseguente arco di salvezza, è citato da san Pietro come figura del Battesimo: “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione, essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. Figura, questa, del battesimo, che ora salva voi; esso non è rimozione di sporcizia del corpo, ma invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza il quale è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo” (1Cor 3, 18-22). Il doppio arco di luce, dunque, spiega al popolo che quel Gesù è il Cristo, cioè il Messia atteso dall’umanità fin dall’inizio della rivelazione; quel Messia capace di liberare l’uomo, proprio per mezzo del battesimo che è sepoltura nella sua morte, da una carne incline al peccato e alla disobbedienza a Dio. Gesù, infatti, ha il manto rosso della passione e dell’umanità, perché è stato obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di croce e ha il manto blu della risurrezione e della divinità, perché Dio lo ha glorificato con quella gloria che Egli aveva fin dalla fondazione del mondo. Sopra il suo capo libra lo Spirito Santo, quello spirito che, come attesta l’evangelista Giovanni, rimane su di lui. E Gesù ci guarda, guarda proprio noi che siamo idealmente lì, nella sacrestia di sant’Alessandro in Bergamo, in attesa della celebrazione eucaristica. Cristo ci guarda con gli occhi compassionevoli di chi comprende la fragilità dell’uomo, ma nello stesso tempo conosce e vuole rivelare l’onnipotenza d’amore del Padre. Perciò le sue braccia si protendono verso il basso verso quel paesaggio minuscolo ma dettagliato che riposa placidamente sotto il fulgore di quel Cielo. Qui, come non mai nella storia dell’arte, la Trinità non è fotografata solo nell’alto del suo Cielo ma si staglia sopra un paesaggio vivo e reale. Umano. Non a caso infatti, lì sotto ci siamo noi, come pecore minuscole e c’è il pastore. Questo Pastore così piccolo è davvero lo stesso Pastore che campeggia nel cielo. Quei piedi, che ora calcano l’arco di luce, sono gli stessi piedi che calcarono l’opacità della terra ed è per questo che noi possiamo dire che Gesù, il Cristo, il Kyrios – il Signore – è nostro Signore. È Signore della nostra vita e della nostra umanità, Signore perché Dio, figlio Unigenito del Padre, ma è «nostro» perché vero uomo, Figlio dell’uomo. La nostra natura con lui, per mezzo del battesimo, è stata ammessa alla comunione divina. Infatti le mani del Padre e del Figlio formano a loro volta un quadrato, simbolo come già detto dell’uomo, contenuto però nel cerchio di luce che simboleggia il Cielo. Così la natura umana grazie al buon Pastore che l’ha condotta alle acque salutari del battesimo, è entrata nell’eternità di Dio.

suor Maria Gloria Riva, luglio-agosto 2020