L’Eucarestia nei suoi riti al Concilio di Trento – parte terza (Ottobre 2017)

Nel tentativo di rispondere al quesito del precedente numero del Montefeltro si può dire che le riforme liturgiche tridentine producono fondamentalmente tre conseguenze. La prima è una forte centralizzazione dell’autorità liturgica, organizzata sotto il Papa e la Curia romana. Eliminando così ogni innovazione arbitraria introdotta dai singoli e nel tempo stesso correggendo gli abusi liturgici dilaganti. Venne fondata la Sacra Congregazione dei Riti nel 1588 per “vigilare che in tutto il territorio della Chiesa latina si segua con ogni cura il modo prescritto di celebrare la Messa e anche le altre funzioni del culto; […] e fare in modo che lo stato sancito da Pio V non fosse cambiato o compromesso in nessun punto” (J. A. Jungmann). Secondo Haunerland, la liturgia nata dal Tridentino “non era l’antica liturgia romana, ma una liturgia mista romano-gallicano-germanica. L’intenzione del Concilio era certo di riformare la preghiera delle Ore “secondo l’ordinamento originario della preghiera” e la Messa “secondo la norma originaria e i riti dei santi Padri”, ma ciò era un obbiettivo che con i mezzi di allora e nella situazione della scienza liturgica del tempo doveva rimanere irraggiungibile”. Così la liturgia post-tridentina è rimasta la “continuazione del Medioevo, per quanto continuazione emendata e migliorata, una liturgia particolare del clero, che dapprima si svolgeva spesso ancora dietro il pergamo. La lingua continua a essere quella latina. Anche le chiese parrocchiali compiono la liturgia a misura delle loro possibilità nella stessa maniera. Al popolo però, se si eccettua la predica, è dedicata poca attenzione” (J. A. Jungmann). Il popolo “assiste alla Messa”; la sua partecipazione si limita all’”udire” e al “vedere”. Per esso la liturgia rimane il mistero per lo più incompreso, anche se il Concilio aveva ammonito di “spiegare frequentemente durante la Messa le letture o qualche altro aspetto del mistero, soprattutto nelle domeniche e nelle feste” (Sessione 22, cap. 8).
La seconda conseguenza, derivante dalla prima, è una forte accentuazione delle rubriche allo scopo di mantenere l’uniformità liturgica nella Chiesa universale. Ciò, però, ha portato ad una nuova mentalità: “il rubricismo ebbe conseguenze morali e giuridiche a proposito della validità della Messa. Le rubriche, che un tempo erano mere linee guida descrittive, divennero norme obbligatorie” (Keith F. Pecklers). Infine, notiamo una dimensione pastorale emersa in una discussione sulla comunione sotto le due specie per i laici e su un maggior uso della lingua parlata nella Messa. “Pochissimi sanno che questi due argomenti non furono categoricamente respinti a Trento. Di fatto, non pochi vescovi parlarono positivamente a proposito di entrambi i temi. Alla fine, però, i vescovi optarono per la prudenza, giudicando che fosse inopportuno operare tali cambiamenti in quel tempo, poiché ci sarebbe voluta una maggiore istruzione catechetica. Ad ogni modo Trento incoraggiò a predicare in lingua corrente la domenica e nelle feste…” (K. F. Pecklers).
Questa liturgia romana emersa dalla riforma tridentina si è mantenuta per quattro secoli, fino al Concilio Vaticano II, “anche quando gli elementi esterni che la circondavano cambiarono [nelle epoche successive quali il barocco o l’illuminismo], nel campo dell’architettura, della musica e della pietà popolare… Questi cambiamenti furono per lo più estetici o superficiali, anziché organici, in termini dell’effetto che ebbero sullo svolgimento e sulla celebrazione della liturgia romana in sé” (Idem).
Don Raymond Nkindji Samuangala