Nella scomparsa, l’incontro

Immagine: Arcabas, ciclo sui discepoli di Emmaus. Scomparsa 1994

In questo dipinto non c’è centro, il centro della scena è fuori, in un punto lontano verso il quale guardano i due. Laddove c’era il Signore Gesù è rimasta la luce dorata e l’ombra della croce. Essi restano lì, basiti: il tovagliolo nella mano di Cleopa, l’altra mano portata alla bocca con gli occhi pieni di stupore e di domanda. L’altro discepolo è balzato in piedi, ancora più sorpreso. Forse Cleopa aveva intuito qualcosa di quel misterioso compagno, ma l’altro discepolo è travolto dall’evento. La sedia cade fuori dal dipinto e travolge noi che stiamo guardando l’opera. Il contrasto tra questo discepolo in movimento e la fissità degli altri elementi, è grande. Sulla tavola, calice, piatto, bottiglia, il mestolo nella zuppiera: tutto parla di un pasto che stava per essere consumato, di una interruzione improvvisa. Arcabas ci porta magistralmente dentro il senso profondo della fede cristiana: l’incontro. La nostra fede è un incontro, solo da qui può e deve scaturire la missione. Non indottrinamento, non proposte forzate, ma comunicazione di una gioia, di un fatto incontrato, di una vita ribaltata dalla grazia, come la sedia dell’amico di Cleopa. Uno dei paragrafi di Redemptoris Missio si intitola: Noi non possiamo tacere. Ecco il senso della missione! Una parola che sale al cuore, traboccante di gioia e di vita per un evento incontrato. Lo stesso documento infatti si domanda: “All’interrogativo: perché la missione? Noi rispondiamo con la fede e con l’esperienza della Chiesa che aprirsi all’amore di Cristo è la vera liberazione. In lui, soltanto in lui siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte. Cristo è veramente «la nostra pace», (Ef 2,14) e «l’amore di Cristo ci spinge», (2 Cor 5,14) dando senso e gioia alla nostra vita. La missione è un problema di fede…”
Sì, anche noi, ci siamo immedesimati nel cammino dei discepoli, siamo stati con loro nel tortuoso serpente della strada, abbiamo raccontato gli smarrimenti, le delusioni, le asprezze della nostra vita, poi abbiamo taciuto e ascoltato la Parola di sempre, letta in un modo nuovo e ora, qui, mentre il Signore scompare, con loro, abbiamo capito. La missione è un problema di fede. Tutta la vita è un problema di fede. In chi abbiamo riposto la nostra fiducia? Dove ci appoggiamo quando tutto attorno crolla o diventa difficile? I nostri programmi di salvezza sono sterili, insufficienti a garantirci la pace, le nostre diplomazie nei rapporti si rivelano fallimentari: solo un rapporto profondo con il Signore, uno sbilanciamento totale e generoso della nostra vita in lui, può darci stabilità e pace. La missione è un problema di fede, è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e nel suo amore per noi. La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere. In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una «graduale secolarizzazione della salvezza», per cui ci si batte, sì, per l’uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontaleMi piace pensare che gli oggetti della scena rappresentino simbolicamente un quotidiano che se non è infiammato dallo stupore non ci permette l’azione. Si stavano abituando, i due di Emmaus, alla presenza dell’Amico, sapiente, rassicurante; si stavano già appoggiando a lui come se tutto il resto si cancellasse per magia: stanchezze, paure, dubbi. Era bello stare così: resta con noi Signore perché si fa sera! È stato il grido dei due. E invece no. Devono fare i conti con quella croce dalla quale sono scappati, con la realtà nuda e cruda, quotidiana dove il Vero deve compiersi. E se non possono farlo senza il Signore, non possono, a un tempo, compierlo senza il loro proprio sforzo. Non si possono semplicemente appoggiare, l’incontro con Cristo può essere solo un trampolino di lancio.
Papa Francesco, lo scorso anno in occasione della festa della Presentazione di Gesù al tempio, disse parole che possono adattarsi perfettamente alla nostra riflessione: “L’immobilismo non si addice alla testimonianza cristiana e alla missione della Chiesa. Il mondo ha bisogno di cristiani che si lasciano smuovere, che non si stancano di camminare per le strade della vita, per recare a tutti la consolante parola di Gesù. Ogni battezzato ha ricevuto la vocazione all’annuncio, alla missione evangelizzatrice! Le parrocchie e le diverse comunità ecclesiali sono chiamate a favorire l’impegno di giovani, famiglie e anziani, affinché tutti possano fare un’esperienza cristiana, vivendo da protagonisti la vita e la missione della Chiesa. Queste figure di credenti sono avvolte dallo stupore, perché si sono lasciate catturare e coinvolgere dagli avvenimenti che accadevano sotto i loro occhi. La capacità di stupirsi delle cose che ci circondano favorisce l’esperienza religiosa e rende fecondo l’incontro con il Signore”.
I discepoli vivono in anticipo quello che sarà l’esperienza della Chiesa nel giorno dell’Ascensione: perché stiamo a guardare il Cielo? Si, Cristo tornerà, ma nel frattempo la fede ci chiama a un impegno a tutto tondo, a impattarci seriamente nelle cose della terra, e non nonostante esse, ma proprio perché il Cielo, c’è. Sì il Cielo è qui e noi, come i due di Emmaus lo abbiamo incontrato.

suor Maria Gloria Riva, aprile 2021