Il bambino ci prende per mano

Ci ridà il coraggio di rinascere e di riprogettare il futuro

Se non fosse per i bambini… lascerei volentieri gli addobbi natalizi nella cassapanca. Stiamo arrivando alla festa più sentita nel mondo in condizioni critiche. Le guerre – non solo quella nel cuore dell’Europa, ma anche le dimenticate dell’Africa e del vicino Oriente – ci stanno presentando un conto salatissimo con i lutti, le devastazioni, gli odi e ogni altra forma di brutalità. Ne risentono non solo le economie statali e familiari, ma le relazioni interpersonali e politiche. A ciò si aggiunga la sofferenza e i distacchi che ognuno ha dentro di sé. Menomale che ci sono i bambini! Ci costringono ad uscire dai nostri incubi. Sono loro che ci prendono per mano e ci rimettono tra le braccia del Mistero. All’inizio, probabilmente, la nostra potrebbe essere solo accondiscendenza o cortesia, poi siamo ricondotti, a nostra volta, all’infanzia che è in noi. Intendiamoci, non all’infantilismo o all’ingenuità, ma al coraggio di rinascere, di riprogettare il futuro. I bambini non sono appena la speranza del domani, ma sono oggi una profezia e la prima delle risorse. Per questo abbiamo “vegliato” sulla vita nascente dedicando una serata intera alla preghiera, alla riflessione e alla festa, presenti un gruppo di mamme in dolce attesa, in nome di tante altre, insieme ai futuri papà. Per questo – ma sono passate ormai diverse settimane – abbiamo voluto ricordare e chiedere perdono alle giovani vittime degli abusi e rilanciare una cultura del rispetto (pueris debetur maxima reverentia). Ho ricevuto una testimonianza. Ad un giovane insegnante di sostegno è stato affidato un ragazzino autistico; il ragazzino non guarda negli occhi, non stabilisce alcun contatto, non parla. Durante una gita organizzata dalla scuola il giovane insegnante e il ragazzino, ad un certo punto, si siedono lungo un corso d’acqua approfittando del clima ancora mite. Improvvisamente il bambino esce con una domanda: «Mi puoi dire chi è Gesù?». L’insegnante – non credente – s’è chiesto cosa passasse per la testa del suo piccolo amico. Lì per lì non si è preoccupato di rispondere o di chiarire. A fine giornata, sulla strada del ritorno, si è sentito rivolgere ancora la domanda: «Dai, dimmi chi è Gesù», guardandolo sorprendentemente negli occhi e poi abbracciandolo forte forte. L’insegnante è tornato sconvolto per l’accaduto: un fatto del tutto inatteso in una persona autistica. È stato come ricevere un regalo. Ma ci sono voluti mesi per comprendere che il bambino autistico aveva risposto lui perfettamente alla sua stessa domanda: nella forza del suo abbraccio aveva mostrato chi è Gesù. Sono certo che, prima o poi, anche sul cammino di ogni persona Gesù si manifesti. Ma spesso gli occhi restano ciechi e il cuore freddo. In questo tempo di Natale stiamo all’erta, potremmo riconoscere Gesù quando si manifesterà attraverso i più umili e i più piccoli. Secondo la liturgia cristiana ci sono quattro settimane di preparazione alla notte che può cambiare tutto. Ecco l’Avvento. Si avvicina il tempo del solstizio a partire dal quale la luce vince le tenebre. La notte del miracolo non è lontana. Miracolo è questa nascita inaudita. In questa notte Dio viene ad incontrarci. Piccolo, fragile, vulnerabile, si fa uno di noi. «A che serve che il Cristo sia nato allora in una stalla se non nasce oggi nel tuo cuore?». È la domanda che, sette secoli fa, faceva maestro Eckhart, ma che ritornano persino nelle canzoni di Natale. A Natale non celebriamo un semplice anniversario, ma una speranza: Dio è presente in ogni istante del nostro mondo, al nostro fianco, in noi. Questa speranza ridona coraggio, riscalda il cuore, rinnova le forze, apre orizzonti e accende la gioia. Buon Natale!

+ Andrea Turazzi, dicembre 2022

“Non abbiate paura della piccolezza!”

Viaggio Apostolico in Mongolia

Ripercorriamo le tappe del Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Mongolia, avvenuto fra il 31 agosto e il 4 settembre. «Gustate e vedete com’è buono il Signore» , ha esortato il Papa con le parole del Salmo 34. «Perchè la gioia e la bontà del Signore non sono qualcosa di passeggero, ma rimangono dentro, danno gusto alla vita e fanno vedere le cose in modo nuovo». Perciò, in occasione del discorso tenuto a vescovi e religiosi, ha invitato ad «assaporare il gusto della fede in questa terra facendo anzitutto memoria di storie e di volti, di vite spese per il Vangelo. Alle esperienze del primo millennio, segnate dal movimento evangelizzatore di tradizione siriaca diffusosi lungo la via della seta, è seguito un considerevole impegno missionario. Intorno al 1310, Giovanni da Montecorvino fu nominato primo Vescovo di Khān Bālīq. Fu proprio lui a fornire la prima traduzione in lingua mongola del libro dei Salmi e del Nuovo Testamento. Questa grande storia di passione per il Vangelo fu poi ripresa in modo straordinario nel 1992 Con l’arrivo dei primi missionari della Congregazione del Cuore Immacolato di Maria, a cui si sono aggiunti rappresentanti di altri istituti». Ha poi aggiunto: «Il linguaggio di Dio, tante volte, è un sussurro lento, che prende il suo tempo; Egli parla così». «In questi trentun anni di presenza in Mongolia avete dato vita a una molteplice varietà di iniziative caritative. È come il vostro biglietto da visita, che vi ha resi rispettati e stimati. Vi incoraggio a proseguire su questa strada. Al tempo stesso vi invito a tornare sempre e di nuovo a quello sguardo originario da cui tutto è nato. Senza di esso, infatti, le forze vengono meno e l’impegno pastorale rischia di diventare sterile erogazione di servizi. Invece, rimanendo a contatto con il volto di Cristo, scrutandolo nelle Scritture e contemplandolo in silenzio adorante davanti al tabernacolo, lo riconoscerete nel volto di quanti servite e vi sentirete trasportati da un’intima gioia, che anche nelle difficoltà lascia la pace nel cuore. Di questo c’è bisogno, oggi e sempre: non di persone indaffarate e distratte che portano avanti progetti, no: il cristiano è colui che è capace di adorare, adorare in silenzio. E poi, da questa adorazione scaturisce l’attività. Occorre tornare alla fonte, al volto di Gesù, alla sua presenza da gustare: è Lui il nostro tesoro, la perla preziosa per la quale vale la pena spendere tutto». Il Santo Padre esorta dunque «a vedere nel Vescovo non un manager, ma l’immagine viva di Cristo buon Pastore che raduna e guida il suo popolo. L’unità nella Chiesa non è questione di ordine e di rispetto, e nemmeno una buona strategia per “fare squadra”; è questione di fede e di amore al Signore, è fedeltà a Lui». Sottolinea poi come, «in questo cammino, avete un sostegno sicuro: la nostra Madre celeste, che ha voluto darvi un segno tangibile della sua presenza discreta e premurosa lasciando che si trovasse una sua effigie in una discarica, così che dallo sporco della spazzatura è emersa la purezza della Santa Madre di Dio, la Madre del Cielo. Dio ama la piccolezza e ama compiere grandi cose attraverso la piccolezza, come Maria testimonia. Fratelli, sorelle, – esorta il Papa – non abbiate paura dei numeri esigui, dei successi che tardano, della rilevanza che non appare. Non è questa la strada di Dio. Guardiamo a Maria, che nella sua piccolezza è più vasta del cielo, perchè ha ospitato in sè Colui che i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (Mongolia, 2 settembre).
In occasione dell’incontro ecumenico, il Santo Padre ha poi sottolineato il vocabolo armonia, «parola dal sapore tipicamente asiatico. Essa infatti è quel particolare rapporto che si viene a creare tra realtà diverse, senza sovrapporle e omologarle, ma nel rispetto delle differenze e a beneficio del vivere comune. Armonia è forse il sinonimo più appropriato di bellezza». Si è detto poi particolarmente affascinato dalle «dimore tradizionali – la ger – attraverso cui il popolo mongolo rivela una sapienza sedimentata in millenni di storia. La dimensione spirituale di questa dimora è rappresentata infatti dalla sua apertura verso l’alto, con un solo punto dal quale entra la luce, nella forma di un lucernario a spicchi. Così, l’interno diventa una grande meridiana» (Mongolia, 3 settembre).
Nella Messa conclusiva il Pontefice ha esortato: «Nei deserti della vita e nella fatica di essere una comunità piccola, il Signore non vi fa mancare l’acqua della sua Parola, specialmente attraverso i predicatori e i missionari che, unti dallo Spirito Santo, ne seminano la bellezza» (3 settembre).
In occasione dell’Angelus e delle ultime Udienze il Papa ha ricordato infine alcune figure di santi del secolo scorso, presentandoli come fari per la nostra vita: il Beato José Gregorio Hernández Cisneros, medico venezuelano, ed i martiri Giuseppe e Vittoria Ulma con i loro 7 bambini (di cui uno ancora nel grembo materno), sterminati dai nazisti.

Monache dell’Adorazione Perpetua
Pietrarubbia, ottobre 2023

Il prete: indispensabile testimone dell’assoluto

Eucaristia: presenza, azione e auto-donazione del Signore

«È la persona più ricca che ci sia sulla terra, perché possiede parole che consacrano, benedicono, perdonano, risanano, danno speranza e, nel contempo, è la persona più povera perché pronuncia parole che non sono sue: programma e forza gli vengono da oltre». Con queste parole il Vescovo Andrea apre la sua riflessione sulla figura del sacerdote in occasione del 50° di ordinazione di un presbitero della Diocesi di San Marino-Montefeltro, invitando giovani e adulti, uomini e donne, consacrati e laici a rivisitare il loro rapporto con il sacerdote: «Un uomo, ma rivestito di un mistero».
«Il segreto della vita del prete – prosegue nel suo intervento – è dischiuso pienamente in quel suo salire i gradini che lo portano all’altare dove cielo e terra si incontrano». «Nel sacrificio di Cristo, rinnovato sull’altare – puntualizza il Vescovo – viene denunciato il peso del peccato, mentre viene proclamato un amore folle e senza misura del Signore, che si offre per la redenzione». E aggiunge: «Il prete non è un funzionario, ma un uomo totalmente coinvolto in quello che celebra».
In molti si chiedono: «È più difficile oggi fare il prete?». «Lo dimostrerebbero – risponde mons. Andrea – la contrazione numerica dei sacerdoti e la diminuita considerazione sociale, tuttavia il nostro è un tempo in cui le motivazioni di una scelta di questo tipo appaiono sempre più sganciate da qualsiasi altro appoggio che non siano la fede e la missione». Dunque, oggi si tratta di «una scelta più essenziale». Per decidere di fare il prete occorrono «coraggio, disponibilità, capacità di autonomia e soprattutto un amore smisurato per il Cristo». Sembrerebbe un’avventura, «ma non è un avanzare allo sbaraglio», replica. «Ci sono il tempo e lo spazio per un accurato approfondimento della propria vocazione». «E poi – aggiunge – ci sono comunità che sostengono il prete, lo aspettano, come uomo di rapporti profondi, come uomo di comunione, come indispensabile testimone dell’Assoluto».
Dalla riflessione del Vescovo emerge che il compito primario del prete è «essere uomo di Dio» e «il criterio fondamentale della sua missione è quello della carità pastorale» ad immagine del Buon Pastore. «Non siamo noi il Buon Pastore – si smarca subito il Vescovo –, il Buon Pastore è Gesù; tuttavia, Gesù ha voluto il sacerdote per essere sua presenza e il sacerdote ha dato le sue mani, i suoi piedi, il suo cuore, la sua intelligenza per esserlo». Un’altra sottolineatura: il sacerdote è uomo di Dio, ma «non avulso dalla realtà». La grazia dell’ordinazione presbiterale lo abilita «ad incontrare la gente di oggi, nel mondo dei rapporti sociali, segnato da contraddizioni, sofferenze, povertà, nella Chiesa, a servizio di comunità piccole o grandi, in città o nel forese poco importa, ma nella collaborazione con altri preti, con i religiosi, con i laici». «La grazia dell’ordinazione sacerdotale – afferma – mantiene aperto il cuore del sacerdote sulla misura del cuore di Cristo». La carità pastorale del sacerdote si fonda sul mistero che celebra: «Se togli al prete la Messa non capisci più il senso e la radicalità della sua scelta» (Omelia nel 50° anniversario di don Gianni Monaldi, Chiesanuova RSM, 19.8.2023).
Nell’anno pastorale appena iniziato i sacerdoti guideranno il cammino delle comunità ad una rinnovata consapevolezza dell’Eucaristia. «“Emmaus è qui!” – questo il titolo del Programma Pastorale 2023/24 – nelle nostre comunità, realmente – osserva mons. Andrea – perché il Signore è presente con la sua azione: non è immobile come un gioiello che viene messo in cassaforte e tirato fuori di tanto in tanto, e con la sua auto-donazione: continua a donarsi per la vita del mondo: ogni volta come la prima volta».
Nella Giornata del Mandato, festa del rientro e assemblea di inizio anno pastorale in cui il Vescovo dà il Mandato agli operatori pastorali e a tutti i battezzati, il Vescovo Andrea ha ripercorso i passaggi fondamentali dei Programmi Pastorali degli ultimi anni, in cui non è stato privilegiato un ambito, ma «le dimensioni della fede e dell’esperienza cristiana», a partire dal suo nucleo centrale: la Pasqua. Monsignor Andrea ha messo in evidenza uno dei risultati del “camminare insieme”: «La Diocesi non ha soltanto un volto, ma è anche una comunità di volti, perché nelle assemblee di fine anno ci siamo raccontati il vissuto, quello che il Signore è andato facendo tra noi». Non tutti erano d’accordo su questo metodo, perché ritenevano che, in un’assemblea diocesana, fosse necessario dirsi francamente le criticità. «Ma il rischio – avverte – sarebbe stato far la fine dei due di Emmaus, che – dice il Vangelo – litigavano fra loro lungo il cammino e avevano il volto triste». Lo scorso anno l’obiettivo era «essere costruttori di comunità». «In fondo – commenta – il Signore che cosa vuole se non costruire la sua famiglia, “la famiglia dei figli di Dio dispersi”? La comunione è dono di Dio, è la Trinità; tocca a noi farla diventare “comunità”: dalla comunione alla comunità». L’obiettivo di quest’anno sono le Giornate Eucaristiche, quattro giornate diocesane «a cui tutti guardare e convergere», in cui «mettersi alla scuola dell’Eucaristia». «Non pensiamole come una successione di eventi – spiega il Vescovo –, ma come un evento unico diffuso nell’arco dell’anno per mantenere viva la consapevolezza del sacramento dell’Eucaristia». I Consigli Pastorali Parrocchiali e i gruppi lavoreranno su alcuni temi espressi nelle schede contenute nel “quaderno pastorale” (sono alcune delle priorità emerse nei primi due anni del Cammino Sinodale). «Così, alla luce dell’Eucaristia – fa notare –, ogni gruppo potrà portare il proprio contributo di discernimento alla Giornata Eucaristica». L’assemblea del Mandato si è conclusa con questo augurio: «Che la nostra vita sia una vita pienamente eucaristica» (Intervento alla Giornata del Mandato, Pennabilli, 24.9.2023).

Paola Galvani, ottobre 2023

L’Eucaristia, fonte e culmine

“Spinge i fedeli a vivere in perfetta unione”

L’Eucaristia, “fonte e culmine”, invita a polarizzare l’attenzione formativa e partecipativa di tutta la nostra Diocesi in quest’anno pastorale. In un certo senso è culmine del percorso diocesano che, dal 2018 ci guida in una rivisitazione dell’Iniziazione Cristiana in rapporto al mistero pasquale, in tre bienni. Nello stesso tempo l’Eucaristia rappresenta la fonte che ci immerge in quello stesso mistero pasquale che, dall’alba del primo giorno dopo il sabato, ci proietta continuamente verso la domenica senza tramonto. In tal senso, essa fa scaturire tutta la linfa di cui ha bisogno il nostro “essere collocati nella storia umana” per annunciare, celebrare e testimoniare Colui che è il Compimento della storia!
L’espressione fonte e culmine appare nella Sacrosanctum Concilium 10 dove, dopo avere osservato che la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa (cf. n. 9), la Costituzione conciliare sulla liturgia afferma che “Nondimeno la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (SC 10). In effetti, esplicita lo stesso numero 10, “il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei sacramenti pasquali, a vivere in perfetta unione; prega affinché esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede… Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”.
L’essere “fonte e culmine”, dunque, caratterizza tutta la liturgia e in modo particolare l’Eucaristia. Lumen Gentium 11, presentando il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti, afferma che “partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, [i fedeli] offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa così tutti, sia con l’offerta che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica…, ciascuno a modo suo” (LG 11).
Si può allora intuire il valore unico dell’Eucaristia, la sua importanza fondamentale e il suo posto centrale nella vita della Chiesa e di ogni singolo cristiano/a: “Senza la domenica (giorno dell’Eucaristia) non possiamo (vivere)” (Martiri di Abbitene). Si può capire l’appello pressante di Papa Francesco nella sua lettera Desiderio desideravi circa la “necessità di una formazione liturgica continua di tutto il popolo di Dio, per “recuperare la capacità di vivere in pienezza la liturgia” (DD 27). Nella liturgia è coinvolta pienamente la nostra vita perché la conoscenza del mistero di Cristo non è una semplice acquisizione mentale, ma «un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona» (DD 41). Partecipare alla liturgia, quindi, non riguarda solo la sfera intellettuale, non è un gesto devozionale, ma è esperienza concreta e profonda di incontro con Cristo (cf. DD 41).
Di conseguenza, tutti siamo chiamati ad acquisire l’ars celebrandi (DD 48-65). “… Siamo portati a pensare che riguardi solo i ministri ordinati che svolgono il servizio della presidenza. In realtà è un atteggiamento che tutti i battezzati sono chiamati a vivere… Ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con “arte” forma la personalità cristiana del singolo e della comunità”.
Ciò richiede a ciascuno di noi di disporsi con generosità ad accogliere e cogliere le tante occasioni di formazione liturgica che la Diocesi offre. E, se necessario, resettando le nostre posizioni ideologiche, le nostre presunzioni di conoscere tutto e di celebrare bene come l’abbiamo sempre fatto finora, e perfino di essere noi nella verità rispetto all’insegnamento del Concilio e del magistero della Chiesa! Aprirci umilmente a quanto lo Spirito va dicendo alla Chiesa oggi attraverso la liturgia che il Messale Romano di Paolo VI ci offre!

don Raymond Nkindji Samuangala, ottobre 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

L’Ultima Cena nel ciclo di affreschi a Pennabilli

Immagine: Anonimo marchigiano, Ultima Cena, inizi del XV secolo, tempera su intonaco

Continuiamo il nostro viaggio all’interno del ciclo degli affreschi di Pennabilli, presente nella chiesa di Sant’Agostino accanto all’affresco della Vergine in trono, nota come Madonna delle Grazie. Dopo esserci soffermati sull’episodio di Abramo che offre la decima a Melchìsedek, re di giustizia e di pace, l’anonimo artista ci offre una riflessione sul Mistero dell’ultima Cena. Melchìsedek, sovrano misterioso senza patria né genealogia, rappresenta per tutti i padri della Chiesa una prefigura del Cristo, mentre l’offerta del pane e del vino da parte di Abramo, è vista dai Padri come un’anticipazione dell’Istituzione dell’Eucaristia operata da Cristo nell’ultima Cena. Come si comprende tutto l’impianto degli affreschi rappresenta, come già detto, una vera e propria catechesi attorno al mistero eucaristico. L’ultima Cena è situata al centro della composizione; tale ubicazione dice l’importanza dell’evento e, potremmo dire, offre il titolo e il senso di tutto il ciclo degli affreschi.
La disposizione della scena e dei Dodici risente della lezione Leonardesca, datata meno di un decennio prima (1494-1498), ma conserva alcune posizioni, come quella di Giuda dalla parte opposta del tavolo, abbastanza consuete nell’iconografia classica dell’ultima Cena. L’artista cattura il momento solenne in cui Giovanni, interpellato da Pietro, rivolge a Cristo la domanda: «Maestro chi è colui che ti tradisce?». La risposta del Maestro è emblematica: «Colui che intinge il boccone nel mio piatto…» e, a queste parole, Cristo porge del pane intinto nel suo piatto a Giuda. Il dialogo è evidenziato dal gioco dei colori negli abiti dei tre protagonisti: il giallo e il rosso. Questo rimbalzare di toni fra Giuda, Giovanni e Gesù sta a indicare la diversità di risposta al Mistero in atto da parte dei due discepoli più amati da Gesù. Nel primo, Giovanni, vive un amore incondizionato che rimarrà fedele fin sotto la croce, nel secondo, invece alberga un amore immaturo che giunge al sacrilegio. Assumere il boccone dalla mano del Cristo, senza la disposizione del cuore fu per Giuda una sorta di comunione sacrilega che anticipava nel segno il gesto del tradimento che da lì a poco avrebbe compiuto. Tutti i discepoli sono impegnati in un gesticolare denso di sorpresa e di domanda, sul modello, appunto, della famosa Cena leonardesca di Milano. Pietro, rigido, impugna il coltello anticipando -anche lui – nel segno, quello che si sarebbe poi verificato nell’Orto degli Ulivi.
Il pane dato a Giuda e l’anfora del vino in primo piano, in continuità con l’offerta di Melchìsedek, indicano che si tratta dello stesso sacrificio: là in figura, qui nella realtà. Il sacrificio di Cristo, tuttavia, richiede un tradimento e una consegna, Giuda, infatti, alzandosi di scatto mostra di tenere nella mano destra la borsa dei denari. Accanto a lui c’è un apostolo, forse Tommaso, anche lui segnato dall’incredulità al punto, che dopo la risurrezione intingerà il suo indice nelle piaghe così come ora Cristo intinge il pane nel suo piatto per offrirlo a Giuda; tra gli apostoli egli è l’unico a guardare verso di noi. L’apostolo tiene i due indici puntati: quello della mano destra è alto e levato, come a decretare l’ineluttabilità del gesto sconsiderato di Giuda, mentre nell’altra mano lo stesso indice è indirizzato verso il traditore. Era Tommaso del resto che, secondo il Vangelo di Giovanni, dopo la domanda sul traditore, chiede a Gesù: «Signore, non sappiamo dove vai come possiamo conoscere la via?». E la via è quella della passione.
Leonardo aveva collocato Giuda all’interno della schiera dei discepoli, senza una particolare distinzione, quasi a sottolineare, come vuole san Tommaso, il libero arbitrio consegnato ad ogni uomo. Il nostro affresco, invece, in accordo con tutta la tradizione agostiniana e francescana, vuole Giuda collocato dalla parte opposta della tavola rispetto a Gesù e ai dodici, come un predestinato. A compendio delle due posizioni teologiche, l’artista lo veste di giallo (colore assegnato tanto all’invidia e alla pazzia che all’elezione divina), quasi a sottolineare che entrambe le possibilità stavano davanti all’apostolo e alle sue scelte.
Anche davanti alla tavola si ripropone il dramma di una scelta. Un gatto e un cane, in primo piano, si contendono un boccone caduto dalla tavola. I gatti sono simbolo di malizia, i cani di fedeltà. Qui il gatto sembra avere la meglio sul boccone. Un altro gatto è nascosto proprio sotta il sedile di Giuda: la malizia segna ormai irrimediabilmente i passi del traditore.

suor Gloria Maria Riva, ottobre 2023

“Dare la parola all’Eucaristia”

Aperto il nuovo anno pastorale della Diocesi

La Diocesi di San Marino-Montefeltro ha inaugurato domenica 24 settembre il nuovo anno pastorale. È accaduto nel contesto di una vasta assemblea di oltre 200 persone che hanno letteralmente gremito la Cattedrale di Pennabilli. Rappresentati in modo qualificato tutti i vicariati, con sacerdoti, diaconi, esponenti della vita consacrata, laici e, tra questi, molti giovani. Dopo le presentazioni è stata offerta una sintesi dei lavori sinodali e una relazione sulla realtà dell’Eucaristia, a cui ha fatto seguito un momento alto di spiritualità: trenta minuti di silenzio davanti al Pane consacrato, l’Eucaristia, posta sull’altare per l’adorazione. A detta di molti è stato il momento più forte e più intenso del pomeriggio: non si è solo parlato di Eucaristia, ma si è data la parola all’Eucaristia: «Nel tuo silenzio accolgo il mistero venuto a vivere dentro di me. Sei tu che vieni, o forse è più vero che tu mi accogli in te, Gesù», sono le parole intonate dal coro.
L’assemblea si è chiusa col “Mandato” agli impegnati nel servizio pastorale. Ma, è stato ribadito, ogni cristiano è “operatore pastorale” e missionario. Sono passati secoli dalle dispute medioevali sull’Eucaristia e tanto tempo dalle obiezioni protestanti; oggi non c’è più la discussione, semmai l’urgenza di una nuova consapevolezza dell’Eucaristia. Una consapevolezza che non potrà essere solo un sapere intellettuale o l’appagamento di un fervore intimistico, ma la presa di coscienza di quanto ricorda il Concilio Vaticano II raccogliendo e sintetizzando le Scritture e la Tradizione: Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Una consapevolezza senza riduzioni, anche se la ristrettezza del tempo e la graduale pedagogia impongono delle scelte fra una ricchezza di temi che si intrecciano tra loro: sacrificio di Cristo che si rinnova sull’altare, banchetto che unisce fratelli, cibo e bevanda per il cammino, annuncio della morte e della risurrezione del Signore nell’attesa della sua venuta. Suggestioni, tesori e luci che inebriano il cuore di chi crede, mobilitano la comunità che celebra, interpellano chi, per ora, sta a guardare.
Quest’anno, dunque, l’Eucaristia sarà il centro della comunità cristiana e proposta per i cammini personali e comunitari. Si dice che sarà il tema dell’anno, meglio dire l’esperienza dell’anno: sperimentare che davvero l’Eucaristia fa la Chiesa. A questo aspetto ha condotto il cammino pastorale degli ultimi anni: dall’annuncio della risurrezione di Gesù al Battesimo che infonde la vita nuova, dall’urgenza missionaria alla forza dello Spirito, dalla comunione ecclesiale all’Eucaristia. Viene rilanciata una provocazione: che posto occupa l’Eucaristia nella vita della comunità cristiana? I presbiteri aiuteranno con la loro fede, con la cura nel celebrare e con l’educazione alla spiritualità eucaristica. Negli incontri e nei gruppi non mancheranno riflessioni e approfondimenti sull’Eucaristia, i suoi effetti e la sua ricaduta sociale. Si vorrebbe uno scatto in avanti di tutta la Diocesi nella conoscenza, nella partecipazione e nell’adorazione del Sacramento.
L’intera Diocesi, nel suo programma annuale, propone “Emmaus”, l’icona dei due discepoli che si allontanano delusi dalla comunità di Gerusalemme e lungo la via incontrano il Risorto che riconosceranno nell’atto dello spezzare il pane. È l’indicazione per il percorso: Diocesi in cammino col Signore Risorto, in ascolto del suo soave rimprovero quando la sorprende incerta e triste. Il Signore le spiega le Scritture e rimane con lei nel dono di un pane spezzato. Scompare dalla sua vista, ma i cuori ardono a motivo dell’incontro. I viandanti verso Emmaus ritornano al cenacolo dove Pietro e gli altri sono uniti e la Madre di Gesù è fra loro. “Emmaus è qui!”: sintesi del cammino per il nuovo anno. È stato ribadito: «L’Eucaristia è presenza del Signore (se davvero ne fossimo persuasi!), è azione del Signore (non è gioiello prezioso chiuso in cassaforte), è sua auto-donazione (ogni volta come la prima volta)».
È interessante la modalità del collegamento fra l’esperienza dell’Eucaristia e il Cammino Sinodale, entrato nella sua seconda fase. Per l’impresa della nuova evangelizzazione non bastano le dichiarazioni di intenti, occorre valutare mezzi, risorse e condizioni di possibilità come fa il costruttore evangelico, prudente e intraprendente (cfr. Lc 14,28-31). Ogni comunità – in primis i Consigli Pastorali – può fare tesoro di un “quaderno pastorale” che offre occasioni di esercizio del discernimento comunitario sullo sfondo dei quattro verbi eucaristici: prendere, benedire, spezzare, dare. Intorno all’Eucaristia fioriscono iniziative di carità, maturano ministeri e servizi, partono cammini di impegno sociale, sbocciano vocazioni e vocazioni al sacerdozio, realtà molto concrete che esigono cura e discernimento. Il Signore poi affida ai presbiteri la più sublime espressione del suo amore, il “suo donarsi”.
Senza presbitero non c’è Eucaristia. Anche le comunità più piccole reclamano almeno l’Eucaristia domenicale. Che fare quando mancano i presbiteri? Occorre mettere in evidenza la bellezza del sacerdozio, una vita interamente donata per il Signore e per gli altri. Che non ci manchino i sacerdoti e ai sacerdoti non manchi la collaborazione e l’affetto dei fedeli!

+ Andrea Turazzi, ottobre 2023

“Maria si alzò e andò in fretta”

XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù

Abbiamo seguito con commozione il Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Portogallo, in occasione della XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù. Nell’incontro con le autorità locali, il Pontefice ha esordito dicendo: «Ci troviamo ai confini del mondo perchè questo Paese confina con l’oceano, che delimita i continenti. Lisbona ne porta l’abbraccio e il profumo. Un mare che è molto più di un elemento paesaggistico, è una chiamata impressa nell’animo di ogni portoghese». Ha poi auspicato che «la Giornata Mondiale della Gioventù sia, per il “vecchio continente”, un impulso di apertura universale. Perchè di Europa, di vera Europa, il mondo ha bisogno!». Aggiunge il Papa: «L’oceano, immensa distesa d’acqua, richiama le origini della vita. Nel mondo evoluto di oggi è divenuto paradossalmente prioritario difendere la vita umana, messa a rischio da derive utilitariste, che la usano e la scartano. Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; la Giornata Mondiale della Gioventù è occasione per costruire insieme» (Lisbona, 2 agosto).
Ai consacrati, vescovi e sacerdoti, il Papa ha rivolto parole di esortazione alla speranza: «Fratelli e sorelle, quello che viviamo è certamente un tempo difficile, lo sappiamo, ma il Signore oggi chiede a questa Chiesa: “Vuoi scendere dalla barca e sprofondare nella delusione, oppure farmi salire e permettere che sia ancora una volta la novità della mia Parola a prendere in mano il timone?”. Ecco cosa ci domanda il Signore: di risvegliare l’inquietudine per il Vangelo. Quando ci si abitua e ci si annoia e la missione si trasforma in una specie di “impiego”, è il momento di dare spazio alla seconda chiamata di Gesù, che ci chiama di nuovo, sempre. Non abbiate paura di questa seconda chiamata di Gesù. Non è un’illusione, è Lui che viene a bussare alla porta». Ha poi sottolineato: «Per fidarsi ogni giorno del Signore e della sua Parola, non bastano le parole, occorre tanta preghiera. Solo in adorazione, solo davanti al Signore si ritrovano il gusto e la passione per l’evangelizzazione. La preghiera di adorazione l’abbiamo perduta; e tutti, sacerdoti, vescovi, consacrate, consacrati devono recuperarla» (Vespri, 2 agosto).
Anche ai giovani universitari di Lisbona ha detto: «Non dobbiamo aver paura di sentirci inquieti, di pensare che quanto facciamo non basti. Preoccupiamoci piuttosto quando siamo disposti a sostituire la strada da fare col fare sosta in qualsiasi punto di ristoro, purché ci dia l’illusione della comodità. Amici, permettetemi di dirvi: cercate e rischiate. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto» (Lisbona, 3 agosto).
Arriviamo finalmente ai discorsi rivolti ai giovani radunati per la GMG! Durante la cerimonia di accoglienza il Santo Padre ha subito lanciato la sfida: «Voi non siete qui per caso. Il Signore vi ha chiamati, non solo in questi giorni, ma dall’inizio dei vostri giorni. Sì, Lui vi ha chiamati per nome. E siamo stati chiamati perchè siamo amati». Invita dunque: «Cari giovani, aiutiamoci vicendevolmente a riconoscere questa realtà: siano questi giorni echi vibranti di questa chiamata d’amore di Dio, perchè siamo preziosi agli occhi di Dio, nonostante quello che a volte vedono i nostri occhi. Che questi siano giorni in cui il mio nome, il tuo nome, risuoni come una notizia unica nella storia, perché unico è il palpito di Dio per te. Questo è il punto di partenza della GMG, ma soprattutto il punto di partenza della vita» (Cerimonia di accoglienza, 3 agosto).
Durante la Via Crucis ha messo in luce: «il Verbo si fece uomo e camminò tra noi. E la Croce che accompagna ogni Giornata Mondiale della Gioventù è l’icona, è la figura di questo cammino. Gesù cammina per me, per dare la sua vita per me» (Via Crucis, 4 agosto).
Riprendendo il tema mariano della GMG, nel discorso tenuto a Fatima durante il Rosario con i giovani ammalati, il Papa ha detto: «Il pellegrinaggio è proprio una caratteristica mariana, perchè la prima a fare un pellegrinaggio dopo l’annunciazione di Gesù fu Maria verso la cugina Elisabetta. E Maria ci indica quello che Gesù ci chiede: camminare nella vita collaborando con Lui!» (Veglia, 5 agosto).
«A voi, giovani, Gesù oggi dice: “Non temete!”, “Non abbiate paura!”. Vorrei guardare negli occhi ciascuno di voi e dirvi: non temete, non abbiate paura. È Gesù stesso che vi guarda ora, Lui che vi conosce, conosce il cuore di ognuno di voi. E oggi Lui dice a voi, qui, a Lisbona, in questa Giornata Mondiale della Gioventù: “Non temete, non temete, coraggio, non abbiate paura!” (Santa Messa, 6 agosto).
Termina con «un ringraziamento particolare ai protagonisti principali di questo incontro. Sono stati qui con noi, ma sono sempre con noi: obrigado a Te, Signore Gesù; obrigado a te, Madre nostra Maria” (Angelus, 6 agosto).

Monache dell’Adorazione Perpetua
Pietrarubbia, settembre 2023

«Non vi ritengo ospiti, ma corresponsabili»

I giovani annunciano la profezia di un mondo unito

«Non bastano i nomi per definirla, perché poche parole, come questa, hanno il potere di riportarci con tanta forza alla nostra condizione umana, alla nostra fragilità, come alla nostra capacità creatrice, trasformatrice, imprenditoriale…». È la terra, argomento attorno a cui il Vescovo Andrea ha imperniato il suo intervento al Festival Francesco 4.0 tenutosi a Chiusi della Verna, dall’11 al 20 agosto, a ottocento anni dall’approvazione della Regola Francescana e del primo presepe di san Francesco a Greccio. Monsignor Andrea inizia raccontando il suo rapporto speciale con la terra attraverso un simpatico e significativo aneddoto familiare: «Prima di entrare in casa dopo il lavoro, mio padre – ha potuto crescere ben cinque figli con meno di un ettaro di orto! – si lavava accuratamente i piedi, poi, a piedi scalzi, attraversava il cortile ed entrava. Mamma aveva molta cura della casa e, vedendo papà entrare con i piedi coperti di terra, aveva da ridire. Lui replicava: “Ma la terra è pulita!”». La terra è dono, «l’abbiamo ricevuta dal Creatore», e dalla terra, «l’elemento del pianeta che è anche nelle stelle», è tratto l’uomo. La terra è anche responsabilità: «Come la trasmetteremo ai nostri figli e ai nostri nipoti?», chiede ai partecipanti al Festival.
Il Vescovo osserva che è necessaria «una rinnovata e sana relazione tra l’umanità e la terra», una vera e propria alleanza con la terra. Ne indica tre caratteristiche. Innanzitutto, l’unità: «Uomo e terra si appartengono reciprocamente. L’uomo non può ignorare le esigenze della terra, non può sottoporla al suo capriccio o al suo arbitrio, non può recidersi dalla terra. La terra, dal canto suo, se rispettata nei suoi cicli, nei suoi ritmi e nella sua natura, offrirà ospitalità, nutrimento e bellezza. Diversi, noi e la terra, ma uniti». Poi, l’indissolubilità: «I destini della terra e dell’uomo non sono pensabili separatamente. La perdita dell’uomo sarebbe per la terra un ritorno all’indietro, al caos. L’uomo trae profitto dalla terra, ma sarà attento a non impoverirla, a non manipolarla scriteriatamente». Infine, la generatività: «La terra e l’uomo, alleati, possono portare frutti di vita, hanno la vocazione a dare il meglio: pane quotidiano per tutti, acqua assicurata ad ogni uomo (purtroppo oggi non è così…), ma occorre una paziente opera, quasi una gestazione».
«Unità, indissolubilità e generatività – conclude il Vescovo – sono pensate dal Creatore, perché l’uomo, coltivando la terra, la indirizzi ad un futuro di risurrezione: compimento della creazione». L’uomo è tratto dalla terra e alla terra ritorna, ma «il tornare alla terra non è un marcire che dice fine, scomparsa, polvere. La fede ci assicura che l’uomo Gesù, entrato nelle viscere della terra, prepara la risurrezione ed è come un chicco di grano che porta frutto» (Intervento al Festival Francesco 4.0, Chiusi della Verna, 12.8.2023).
La parola “terra” è evocativa: il grido “terra!” di chi è arrivato alla fine di un lungo viaggio per mare fa pensare ai tanti naufraghi di oggi… L’estate, con l’aumento degli sbarchi, ha costretto ad una riflessione sempre più seria. «C’è chi è preoccupato della scarsa sostenibilità per una adeguata integrazione: poche possibilità di lavoro, fragilità delle strutture e dei servizi in un territorio disagiato. C’è chi sente la spinta a partecipare allo sforzo collettivo di aiuto concreto a fratelli e sorelle che portano i segni di una grande sofferenza e il peso dell’ingiustizia». «La Diocesi è da tempo impegnata nell’accoglienza – testimonia monsignor Andrea –, solidarietà e accoglienza sono considerate evangelicamente una promessa di benedizione». Il Vescovo rilancia l’appello di papa Francesco a pensarci tutti fratelli, ribadito con forza alla recente Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona, a cui ha partecipato insieme ad una sessantina di giovani di San Marino e del Montefeltro: «Todos, todos, todos, conosciuti e amati dall’unico Padre» (Articolo per il Corriere di Romagna, 19.8.2023).
L’esperienza della GMG ha fatto «toccare con mano la vocazione dell’umanità ad essere famiglia»: incontri, scambi di bandiere, abbracci… «Un’esperienza formidabile: la profezia di un mondo unito. Non un sentimentalismo, ma strada concreta da percorrere, mettendoci la faccia e pagando di persona». Durante il viaggio di ritorno dalla GMG, il Vescovo Andrea ha lasciato ai giovani un messaggio a più livelli. A livello intimo ha visto i giovani «come la più bella esegesi della parabola del tesoro nascosto nel campo (cf. Mt 13, 44)». «La GMG – confida – è stata la verifica della scoperta di un tesoro». Non mancano le difficoltà e i limiti umani, le “erbacce” presenti in ogni “campo”, «eppure – prosegue rivolgendosi ai ragazzi – voi siete la testimonianza della verità del Vangelo!». A livello ecclesiale ha invitato a non strumentalizzare i giovani, ma a coinvolgerli attivamente nelle iniziative, accogliendo le intuizioni, i sogni, le proposte di cambiamento: «Non vi ritengo ospiti, ma corresponsabili!». A livello “politico” in senso ampio ha scoperto che «i giovani di oggi sono ragazzi e ragazze che, se necessario, si “accontentano di un’ombra”, si immaginano la pace, l’unità e l’internazionalità». Infine, il Vescovo ha affidato ai giovani tre parole per custodire nel cuore i frutti di quei giorni insieme: «Grazie, perdono, “eccomi”, l’“eccomi” di Maria che si “alzò e andò in fretta”» (Report dalla GMG, 8.8.2023).

Paola Galvani, settembre 2023

Il pane e il calice della vita eterna

L’offerta di Abramo e Melchìsedek

Nella chiesa di Sant’Agostino in Pennabilli, accanto all’affresco della Vergine in trono (nota come Madonna delle Grazie), sono stati rinvenuti nel 1989 alcuni affreschi, risalenti all’inizio del XV secolo, che rappresentano una piccola catechesi sul mistero Eucaristico. Il ciclo di affreschi può essere letto tanto dal basso verso l’alto che viceversa. Seguiamo, nella nostra lettura l’ordine cronologico, partendo quindi dal basso troviamo: Abramo offre la decima (pane e vino) a Melchìsedek, re di Salem; l’ultima cena; il miracolo della mula, operato da sant’Antonio a Rimini, e il miracolo dell’ostia fritta. Ci soffermiamo sul primo affresco volendo scandagliare, in questo primo articolo, le radici del Mistero che ci occuperà lungo tutto quest’anno, quello del Corpo e del Sangue di Cristo, luogo in cui la Presenza di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità permane Reale e viva nei secoli e nella storia.
La prima rivelazione del mistero eucaristico, si presenta all’interno di un fatto storico, almeno secondo la narrazione di Genesi 14. Ai versetti 17 e seguenti si narra, infatti, della vittoria di Abramo sugli eserciti stranieri che avevano assalito Sodoma e fatto prigioniero Lot, nipote di Abramo. Mentre Abramo torna vittorioso con i suoi 318 soldati (Gen 15) gli si fa incontro – oltre al re di Sodoma – un misterioso re di Salem di nome Melchìsedek, sacerdote del Dio altissimo, il quale offre in sacrificio pane e vino.
Ogni singolo vocabolo che caratterizza questo re, ha il sapore forte della profezia. Anzitutto Melchìsedek è l’insieme di due nomi e cioè melek, che significa re e sedeqà, che significa giustizia. Questo sovrano, poi, che porta il nome di re di giustizia, è anche re di Salem, cioè re di pace. Le allusioni messianiche sono evidenti: sotto le spoglie di questo misterioso sovrano si cela la presenza di Cristo, vero re di giustizia e di pace.
Tutto questo nell’affresco pennese è evidentissimo. Abramo è in ginocchio, sulla destra, la schiera dei suoi 318 compagni si perde all’orizzonte conferendo alla scena una certa profondità prospettica. Uno dei primi, dietro al patriarca (forse lo stesso Lot) indica sorpreso il misterioso personaggio. Abramo reca con sé delle anfore, una bianca e una ocra (un tempo forse ocra rossa), e una cesta con del pane. Si tratta della decima del suo bottino di guerra, ma anche allusione al sacrificio che Melchìsedek compirà di lì a poco. Che Abramo paghi la decima a questo misterioso personaggio non sfuggì ai primi cristiani. Spiega, infatti, l’autore della lettera agli Ebrei (Ebr 7,1-4): Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. […] Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre. Considerate dunque quanto sia grande costui, al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino. Che in lui il popolo sia invitato a riconoscere Cristo è dato anche dalle due anfore le quali ricordano l’offerta portata all’altare: le ampolle dell’acqua e del vino, elementi che transustanziati, diverranno per noi quel sangue e quell’acqua sgorgati dal costato di Cristo dopo la trafittura della lancia. Non a caso, del resto, lance, portate dai soldati di Abramo, svettano nel cielo. Già da questi primi particolari vediamo il continuo rimando alla celebrazione eucaristica di quest’opera pennese. Il Corpus degli affreschi è del 400, sappiamo che nel 1489 questa Vergine lacrimò miracolosamente e che, 57 anni prima, il 16 novembre 1432, l’altare fu consacrato da Giovanni Secchiani (Seclani), vescovo del Montefeltro. Dunque nel 1483, quando Raffaello realizza, con la sua bottega, un affresco col medesimo soggetto si lascia quasi certamente ispirare da questo modello almeno nella foggia degli abiti. Raffaello fa indossare ai due personaggi principali dell’esercito, Abramo e Lot, copricapi e armature simili a quelli del nostro autore anonimo, elmi di ferro molto diffusi nell’Europa tra l’XI e il XV secolo. Sono abiti contemporanei mediante i quali l’artista ha voluto attualizzare nel suo oggi il mistero dell’Incontro fra Abramo e Melchìsedek.
Sulla parte sinistra dell’affresco, Melchìsedek indossa invece un turbante orientale e un abito rosso porpora. Non è solo, ma sei personaggi gli fanno corona e sembrano proprio rimandare a Cristo e ai suoi discepoli. Il re di Salem alza la mano benedicente mentre tiene a tracolla il corno dell’unzione, rimando esplicito alla parola Mashiach, cioè Messia che significa appunto Unto. In questo primo sacrificio offerto a Dio da un personaggio misterioso si adombra evidentemente un altro sacrificio, quello eucaristico offerto da Cristo al Padre come segno della vittoria ormai definitiva sul nemico per eccellenza, cioè il Maligno e con esso, il peccato e la morte. Non a caso questo episodio entra nel Canone romano, cioè in quella preghiera Eucaristica che, pur con sfumature diverse, è rimasta invariata in tutto il mondo fino al Concilio Vaticano II.
Le parole del Canone sono a tutt’oggi un prezioso commento a questo affresco. Quanto qui affermato in latino, che poteva risultare poco comprensibile al popolo, veniva richiamato spiegato e illustrato sulle pareti di questo altare: “Offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna, calice dell’eterna salvezza. Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchìsedek, tuo sommo sacerdote”. Il pane santo della vita eterna è lì celato nell’offerta di Abramo, così pure il calice dell’eterna salvezza è adombrato dall’anfora in ocra rossa che svetta sola e centrale in tutto l’affresco.

suor Gloria Maria Riva, settembre 2023

Estate 2023: contraddizioni e speranze

Un’estate che sembrava indugiare. Poi è arrivata infuocata. Poi è parso non andarsene più. «Ma che tempo che fa?»: ormai non più chiacchiera ma occasione di studi, di ricerche scientifiche, incubo per qualcuno. Intanto la macchina per le vacanze si è lanciata a pieno ritmo. La riviera promette bene. L’entroterra si dà da fare, anche se le ferite dell’alluvione e delle frane sono ancora evidenti e tante attività e famiglie sono ancora in attesa degli aiuti promessi. Sull’agenda della politica si aprono nuovi e vecchi capitoli: le manovre di bilancio, il salario minimo, il lavoro, il cuneo fiscale… Ritornano – in contrasto con le immagini vacanziere – le notizie di guerra e di sbarchi: anche nei piccoli centri non ci si può sentire estranei. Quello che accade sulle sponde del Nord Africa e sulle nostre coste ci riguarda e non può non mobilitarci. Continuiamo a dircelo: temi e sfide da affrontare subito, da mettere sull’agenda delle nostre riflessioni, preghiera e impegno: in autunno è già tardi!
In questi mesi estivi non stanno mancando occasioni preziose: convegni, incontri, ricorrenze. Notevole, come ogni anno, per contenuti e presenze il Meeting di Rimini, chiusosi con l’intervento del Presidente Sergio Mattarella sulla Costituzione e i suoi principi di amicizia. L’attualità continua a proporre cronache di abusi, anche di ragazzi ai danni di ragazzine, di violenze nel degrado delle periferie, ma anche in piccoli centri di provincia. Si impone la questione giovanile. Fresco di stampa il Rapporto giovani 2023 sulla condizione giovanile in Italia (a cura dell’Istituto Giuseppe Toniolo – Milano). Il Rapporto indaga su come i giovani vivono e interpretano i cambiamenti in atto e le relative ricadute e preferenze del loro essere e del loro agire nella società. Il Rapporto affronta temi sensibili come la formazione e le nuove competenze, l’idea di famiglia e la propensione ad avere figli, l’impegno sociale, particolarmente in tema di ambiente, il rapporto con le istituzioni. I dati e le analisi evidenziano come agenzie educative, scuole, famiglie tendano a pretendere dai giovani, anziché partire da ciò che i giovani sono e vogliono diventare.
Nel cuore dell’estate ha avuto un forte rilievo la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona. Chi ha seguito l’evento dall’esterno può succedere che lo qualifichi solo come una grande adunata fine a se stessa, con un impiego smisurato di energie, una prova di forza della Chiesa capace ancora di mobilitare un milione e mezzo di giovani. Ma la si può guardare con una certa relatività ed un po’ di apprensione. Da un lato, aggrapparsi stoltamente ai numeri porta alla tentazione di misurare “quanto si è forti”; dall’altro lato c’è tutto il mandato e la responsabilità del prendersi cura dei giovani. A Lisbona sono andati una sessantina di giovani della nostra Diocesi, attraversando mezza Europa. Sono saliti con un’adeguata preparazione, motivati, disponibili alla fatica e aperti all’incontro, sempre pieno di sorprese.
Le parole e i messaggi diretti ai giovani sono stati piuttosto parchi per dare tutto lo spazio ai discorsi di papa Francesco (confermata la popolarità tra i giovani), discorsi distribuiti su un crescendo di speranza e di incoraggiamenti. «Noi giovani – ha scritto un ragazzo – viviamo di grandi opposti: possiamo essere entusiasti sognatori e contemporaneamente pessimisti frustrati; possiamo vivere pronti ad incarnare ideali alti, impegnandoci con gratuità e dedizione e, contemporaneamente, essere abitati dal senso di inadeguatezza e dallo scoraggiamento. Quello di cui abbiamo bisogno – continua il giovane pellegrino – è una Chiesa che tutti i giorni ci aiuti ad abitare i nostri opposti». A Lisbona i giovani hanno trovato non solo entusiasmo, ma anche tanta accoglienza e considerazione. Hanno goduto di ampi spazi di ascolto da parte dei vescovi partecipanti, ai quali hanno consegnato i loro pensieri e i loro interrogativi sulla cura per l’altro e l’intero creato, su fraternità e condivisione, sulla pace e sul perdono come promessa di un futuro possibile. Temi centrali in molti gruppi: la ricerca di una fede più profonda e il rapporto con la comunità cristiana. Il metodo? Quello sinodale: piccoli gruppi, condivisione in un clima di profondo ascolto reciproco e consegna dei frutti del dialogo. Nei giorni della partenza era stata letta la parabola evangelica del tesoro nascosto in un campo. Quale esegesi più vera di quella dei nostri ragazzi? Prendere sul serio quel campo, assumerlo, abitarlo: terreno del quotidiano, tempo della contemporaneità. Ho conosciuto giovani partiti “da turisti” e tornati “diversi”: hanno fatto il cammino, hanno accolto i compagni di viaggio, non si sono sottratti alle fatiche, hanno saputo cantare e fare silenzio. Hanno trovato il Vangelo, senso della vita ed energia di fraternità. Tutto questo è indispensabile per crescere, per guardare lontano, per abitare il presente: perché possa esserci futuro. Chissà quanti educatori hanno avvertito – come me – la necessità di una conversione: non possiamo più organizzare eventi, tracciare cammini, pensare noi al loro posto. È vero, sono graditi e attesi ospiti nelle nostre liturgie, li vorremmo partecipi delle nostre iniziative, rammaricandoci per la loro assenza. Occorre piuttosto far di tutto perché siano non ospiti ma corresponsabili là dove si pensa, si prendono decisioni e si progetta. È questo il modo necessario del prendersi cura: dare fiducia!

+ Andrea Turazzi, settembre 2023

Nulla accade senza il Padre

Bellezza dell’essere prete missionario

«Lo sguardo di Gesù è uno sguardo di amore infinito, che conosce le esigenze e le sofferenze della gente. Solo l’amore conosce veramente». Con queste parole il Vescovo Andrea spiega l’atteggiamento del Signore quando sceglie «coloro che devono continuare la sua missione». «Vedendo le folle Gesù intuisce in loro il bisogno profondo di Vangelo». Da qui si comprende «la bellezza del prete missionario e la missionarietà di ogni discepolo di Gesù». Il sacerdote, condividendo lo sguardo amorevole di Gesù, «prova un sentimento di commozione che attraversa le viscere (il verbo usato nel Vangelo descrive il fremere tipico del grembo materno) per le fragilità e le debolezze della sua gente e sa cogliere il bello che c’è in ogni persona, come in una famiglia». La folla che Gesù, e il sacerdote, vedono attorno a sé è una “folla disordinata”, lacerata, dispersa, afflitta dalla stanchezza. «Oggi si parla molto della stanchezza esistenziale – osserva mons. Andrea – che non è la stanchezza fisica, ma il riverbero di una stanchezza più profonda». Che cosa ci rende stanchi? «È il non poter contare su relazioni in cui possiamo riposarci. Il cuore di ogni persona riposa nella pienezza di una relazione di amore, di accoglienza, nella quale c’è dono reciproco». Solo «in una relazione in cui ti puoi fidare – ribadisce – il cuore si riposa: puoi essere te stesso. Altrimenti devi sempre difenderti, conquistare posizioni, avere prestazioni che ti facciano accreditare dagli altri». Il Vescovo esorta il presbitero a soccorrere questa stanchezza perché la “folla disordinata” di persone diventi comunità, in cui «ognuno si senta bene, non giudicato».
«La messe è molta, ma gli operai sono pochi… Pregate!». Mons. Andrea nota con stupore che, di fronte ad una messe abbondante, non occorre «anzitutto darsi da fare per raccogliere e mietere, ma pregare». «Questa frase – prosegue – ci libera dall’ansia da prestazione; in fondo pensiamo che tutto dipenda da noi, dalla nostra iniziativa, invece, secondo Gesù, il vero evangelizzatore deve sapere che non è lui che salva il mondo: è Dio che opera» (Omelia nella XI domenica del Tempo Ordinario, Secchiano, 18.6.2023).
«Non abbiate paura», dice Gesù ai discepoli che muovono i primi passi per la missione. «È umano avere paura – commenta il Vescovo –, paura della persecuzione, paura della derisione (potevano sembrare fanatici), paura (ed è una paura che ha ogni sacerdote) di sentire la discordanza tra quello che proclama (la testimonianza evangelica) e la propria personale incoerenza». «Una paura che ci fa soffrire e, qualche volta, ci frena nel dire le parole di Gesù», confida. Il Signore non rivolge «un semplice invito a non avere paura, ma un comando (un imperativo)». La traduzione corretta sarebbe: «Non incominciate ad avere paura». Mons. Andrea presenta il testimone non come «colui che deve convincere, ma colui che condivide». «Non si tratta di trasmettere una teoria – precisa – ma Gesù stesso; cosa si può dire per annunciare il Vangelo se non parlare di se stessi, cioè raccontare quello che il Signore ha fatto nella nostra vita? Questo è Vangelo, questa è la bella notizia» (Omelia nella XII domenica del Tempo Ordinario, Maciano, 25.6.2023).
Tornando a parlare del sacerdote, il Vescovo ritiene che, «per capire il prete», sia necessario «salire con lui i gradini che lo portano all’altare, dove Cielo e terra si incontrano». «Se togli al prete la Messa – continua –, davvero non capisci più il senso e la radicalità della sua scelta. Il prete non è un funzionario, ma un uomo totalmente coinvolto in quello che annuncia e celebra. Le sue membra, per l’imposizione delle mani del Vescovo, sono diventate membra della redenzione, come quelle di Cristo. Pur essendo imperfetto, il Signore affida al prete il suo stesso donarsi». Il prete è «del nostro stesso legno» e tuttavia «è rivestito del mistero»; è «la persona più ricca che ci sia, perché possiede parole e mani che benedicono, perdonano, consacrano, risanano e, nello stesso tempo, è la persona più povera, perché pronuncia parole che non sono sue. Il programma e la forza gli provengono da altrove, e anche lui, come ciascuno di noi, grida: “Signore, abbi pietà di me, sono un peccatore. Signore, credo, ma aumenta la mia fede. Signore, salvami”» (Omelia in occasione del 70° anniversario di ordinazione di mons. Giuseppe Innocentini, Serravalle RSM, 25.6.2023).
Dopo l’esortazione a non avere paura, nel Vangelo Gesù parla di passerotti che «non cadono a terra senza il volere del Padre» e dei capelli del capo che «sono tutti contati». «Però vediamo tante cose non belle che accadono», commenta mons. Andrea. «Sei tu, Signore, che le vuoi?». La traduzione esatta sarebbe: «Nemmeno uno di essi cadrà a terra senza che ci sia il Padre accanto a loro». Il Vescovo invita a vedere nello stesso modo «le persone che sono nella prova, i bambini che vengono violati, i migranti che si inabissano nel mare». Allora, si può dire che tutto questo «non accade senza il Padre, senza che ci sia il Padre accanto a loro nel mistero della sofferenza». Capita spesso di usare il proverbio: «Non cade foglia che Dio non voglia». Ma, in verità, «nulla accade senza che il Padre sia accanto a te, pronto a raccoglierti». E conclude: «Tutto passa, tutto crolla, ma il Signore non passa. Il Signore rimane sempre» (Omelia in occasione del 60°anniversario di ordinazione di mons. Graziano Cesarini, Macerata Feltria, 24.6.2023).

Paola Galvani, luglio-agosto 2023