Il pane e il calice della vita eterna

L’offerta di Abramo e Melchìsedek

Nella chiesa di Sant’Agostino in Pennabilli, accanto all’affresco della Vergine in trono (nota come Madonna delle Grazie), sono stati rinvenuti nel 1989 alcuni affreschi, risalenti all’inizio del XV secolo, che rappresentano una piccola catechesi sul mistero Eucaristico. Il ciclo di affreschi può essere letto tanto dal basso verso l’alto che viceversa. Seguiamo, nella nostra lettura l’ordine cronologico, partendo quindi dal basso troviamo: Abramo offre la decima (pane e vino) a Melchìsedek, re di Salem; l’ultima cena; il miracolo della mula, operato da sant’Antonio a Rimini, e il miracolo dell’ostia fritta. Ci soffermiamo sul primo affresco volendo scandagliare, in questo primo articolo, le radici del Mistero che ci occuperà lungo tutto quest’anno, quello del Corpo e del Sangue di Cristo, luogo in cui la Presenza di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità permane Reale e viva nei secoli e nella storia.
La prima rivelazione del mistero eucaristico, si presenta all’interno di un fatto storico, almeno secondo la narrazione di Genesi 14. Ai versetti 17 e seguenti si narra, infatti, della vittoria di Abramo sugli eserciti stranieri che avevano assalito Sodoma e fatto prigioniero Lot, nipote di Abramo. Mentre Abramo torna vittorioso con i suoi 318 soldati (Gen 15) gli si fa incontro – oltre al re di Sodoma – un misterioso re di Salem di nome Melchìsedek, sacerdote del Dio altissimo, il quale offre in sacrificio pane e vino.
Ogni singolo vocabolo che caratterizza questo re, ha il sapore forte della profezia. Anzitutto Melchìsedek è l’insieme di due nomi e cioè melek, che significa re e sedeqà, che significa giustizia. Questo sovrano, poi, che porta il nome di re di giustizia, è anche re di Salem, cioè re di pace. Le allusioni messianiche sono evidenti: sotto le spoglie di questo misterioso sovrano si cela la presenza di Cristo, vero re di giustizia e di pace.
Tutto questo nell’affresco pennese è evidentissimo. Abramo è in ginocchio, sulla destra, la schiera dei suoi 318 compagni si perde all’orizzonte conferendo alla scena una certa profondità prospettica. Uno dei primi, dietro al patriarca (forse lo stesso Lot) indica sorpreso il misterioso personaggio. Abramo reca con sé delle anfore, una bianca e una ocra (un tempo forse ocra rossa), e una cesta con del pane. Si tratta della decima del suo bottino di guerra, ma anche allusione al sacrificio che Melchìsedek compirà di lì a poco. Che Abramo paghi la decima a questo misterioso personaggio non sfuggì ai primi cristiani. Spiega, infatti, l’autore della lettera agli Ebrei (Ebr 7,1-4): Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. […] Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre. Considerate dunque quanto sia grande costui, al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino. Che in lui il popolo sia invitato a riconoscere Cristo è dato anche dalle due anfore le quali ricordano l’offerta portata all’altare: le ampolle dell’acqua e del vino, elementi che transustanziati, diverranno per noi quel sangue e quell’acqua sgorgati dal costato di Cristo dopo la trafittura della lancia. Non a caso, del resto, lance, portate dai soldati di Abramo, svettano nel cielo. Già da questi primi particolari vediamo il continuo rimando alla celebrazione eucaristica di quest’opera pennese. Il Corpus degli affreschi è del 400, sappiamo che nel 1489 questa Vergine lacrimò miracolosamente e che, 57 anni prima, il 16 novembre 1432, l’altare fu consacrato da Giovanni Secchiani (Seclani), vescovo del Montefeltro. Dunque nel 1483, quando Raffaello realizza, con la sua bottega, un affresco col medesimo soggetto si lascia quasi certamente ispirare da questo modello almeno nella foggia degli abiti. Raffaello fa indossare ai due personaggi principali dell’esercito, Abramo e Lot, copricapi e armature simili a quelli del nostro autore anonimo, elmi di ferro molto diffusi nell’Europa tra l’XI e il XV secolo. Sono abiti contemporanei mediante i quali l’artista ha voluto attualizzare nel suo oggi il mistero dell’Incontro fra Abramo e Melchìsedek.
Sulla parte sinistra dell’affresco, Melchìsedek indossa invece un turbante orientale e un abito rosso porpora. Non è solo, ma sei personaggi gli fanno corona e sembrano proprio rimandare a Cristo e ai suoi discepoli. Il re di Salem alza la mano benedicente mentre tiene a tracolla il corno dell’unzione, rimando esplicito alla parola Mashiach, cioè Messia che significa appunto Unto. In questo primo sacrificio offerto a Dio da un personaggio misterioso si adombra evidentemente un altro sacrificio, quello eucaristico offerto da Cristo al Padre come segno della vittoria ormai definitiva sul nemico per eccellenza, cioè il Maligno e con esso, il peccato e la morte. Non a caso questo episodio entra nel Canone romano, cioè in quella preghiera Eucaristica che, pur con sfumature diverse, è rimasta invariata in tutto il mondo fino al Concilio Vaticano II.
Le parole del Canone sono a tutt’oggi un prezioso commento a questo affresco. Quanto qui affermato in latino, che poteva risultare poco comprensibile al popolo, veniva richiamato spiegato e illustrato sulle pareti di questo altare: “Offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna, calice dell’eterna salvezza. Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchìsedek, tuo sommo sacerdote”. Il pane santo della vita eterna è lì celato nell’offerta di Abramo, così pure il calice dell’eterna salvezza è adombrato dall’anfora in ocra rossa che svetta sola e centrale in tutto l’affresco.

suor Gloria Maria Riva, settembre 2023

L’ultimo Paolo

“Andare con Cristo o restare?”

Immagine: Rembrandt, L’apostolo Paolo in prigione, 1627, olio su pannello 72,8 x 60,3 cm Staatsgalerie Stuttgart

Il libro degli Atti degli Apostoli non ha un termine. Nei processi occorsi a Paolo prima a Cesarea e poi a Gerusalemme, non si trovarono nei suoi confronti accuse degne di nota. Tuttavia, poiché le accuse dei giudei erano sempre più incalzanti, Paolo si appellò a Cesare cosicché venne condotto a Roma. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia. Dopo tre giorni, egli convocò a sé i più in vista tra i Giudei… (Atti 28,16 ss).
Paolo espone ai giudei di Roma la propria condizione e i motivi per i quali si appellò a Cesare. Nessuno mostrò di conoscerlo, né di conoscere la nuova dottrina del Vangelo, così Paolo li invitò a tornare per parlare loro della speranza d’Israele. Essi accettarono di buon grado ma, dopo averlo ascoltato, alcuni credettero mentre altri mostrarono inimicizia. Anche nelle ultime battute degli Atti si è di fronte al medesimo paradosso: nell’incontro con i pagani (tanto con gli indigeni di Malta dove aveva fatto naufragio che con i soldati romani) Paolo trova accoglienza e simpatia; nel rapporto con i suoi correligionari trova, invece, diffidenza e scetticismo. Paolo cita qui un misterioso passo di Isaia che afferma come Dio permetta, spesso, cecità e sordità nei credenti per poterli salvare: il cuore di questo popolo si è indurito: e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi; hanno chiuso i loro occhi per non vedere con gli occhi non ascoltare con gli orecchi, non comprendere nel loro cuore e non convertirsi, perché io li risani (cfr. Isaia 6,10). La storia, anche cristiana, ha spesso registrato lo scandalo dell’indurimento del cuore da parte dei credenti, eppure Dio permette la cecità perché se alcuni conoscessero la portata della loro colpa, per orgoglio, non riuscirebbero a portarne il peso. Lasciandoli nell’obnubilamento, Dio può esercitare su di essi la sua misericordia.
Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione. I termini dell’attesa per la conferma delle accuse erano, nel diritto romano, 18 mesi (9 per gli italici), quindi Paolo fu prosciolto dalle accuse e visse in libertà, stringendo una forte amicizia con la comunità cristiana di Roma. A loro espresse il desiderio di essere aiutato ad andare in Spagna (cfr. Rm 15, 24). Non gli fu possibile perché venne arrestato, senza preavviso a Troade, dove nemmeno ebbe il tempo di prendere gli effetti personali. Scrisse infatti a Timoteo (2 Tm 4,3): Quando verrai porta il mantello che ho lasciato a Troade da Carpo, e i libri, specialmente le pergamene. È proprio al discepolo prediletto che l’Apostolo rivela la sua amarezza (2 Tm 4,14-16): Nella mia prima difesa nessuno si è trovato al mio fianco, ma tutti mi hanno abbandonato; ciò non venga loro imputato!
Queste parole rappresentano il testamento di Paolo, simili a quel «tutto è compiuto» e quel «perdona loro perché non sanno quello che fanno» che Cristo pronunciò sulla croce. Rembrandt ci permette di entrare nell’ultima prigione di Paolo. Non è l’unica opera che l’artista dedica all’Apostolo al quale si sentiva legato da quel sentimento di amarezza e insieme di speranza che accompagnò Paolo negli ultimi anni. Una luce penetra nella stanza, lasciando indovinare le inferriate della prigione. Paolo è intento a scrivere le lettere dette della cattività: ai Filippesi; agli Efesini e ai Colossesi e a Timoteo (sicuramente la II lettera). Sono lettere appassionate che rivelano l’amore di Paolo per i suoi e il suo assillo quotidiano per le chiese.
Sul giaciglio scorgiamo il mantello e le pergamene che Timoteo gli aveva riportato da Troade, mentre altri elementi ci aiutano a penetrare i sentimenti dell’Apostolo. Le due mani: una sollevata alla bocca accentua l’aspetto dolente e pensoso del Santo, l’altra regge inerte la penna, quasi impossibilitata a scrivere ancora. In primo piano una spada e un piede scalzo, poggiato con il suo sandalo sulla roccia, narrano dell’imminente martirio e del radicamento di Paolo nella Roccia che è Cristo (cfr. 1 Cor 10,4). Proprio ai Filippesi in quelle ultime ore così egli si esprimeva: «Sono messo alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede (Fil 1,23-25)».
Così gli occhi arrossati del Paolo di Rembrandt ci consegnano al futuro: il libro degli Atti continua rilanciando ogni discepolo alla responsabilità di fronte alla fede. Le due tensioni espresse da Paolo, andare con Cristo o restare dando la vita per i fratelli, sono le tensioni che, ieri come oggi, devono animare gli amici del Signore.

suor Gloria Maria Riva, luglio-agosto 2023

La carità fattiva di Tabità

Ritratto di una cristiana esemplare

Immagine: Edwin Longsden Long Riunione a casa di Dorcas nel XVI secolo 1873-1877, Olio su tela 176.5 x 257.8 x 10 cm, Stephen G. Holland Messrs Vokins, London/England

Torniamo nel contesto di quelli che potremmo definire gli “Atti di Pietro”. Siamo al capitolo 9 dove ci è offerto il ritratto di un’altra cristiana esemplare che ci aiuta a penetrare nella vita quotidiana delle prime comunità.

A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità nome che significa «Gazzella
A Giaffa, città antichissima il cui nome significa Bellezza, viveva una donna cristiana il cui nome era Tabità, o in greco Dorcas. Luca ne specifica il significato: Gazzella, un nome che certamente ben si adattava alla personalità della donna. La gazzella è un animale dai grandi occhi luminosi, simbolo della bellezza e dell’eleganza femminile, agile e capace di superare con facilità dirupi e alture. Tabità, dunque, doveva risplendere di una bellezza spirituale non comune, essere agile nello spirito e animata da prontezza nel servire e da generosità. Non sappiamo altro di Tabità. Molte opere d’arte la rappresentano come un’anziana signora, ma il testo tace l’età. Una di queste però, un olio di Edwin Longsden Long, la ritrae giovanissima e circondata da collaboratrici. Quest’opera commenta egregiamente la prima parte del racconto di Atti 9. Tabità, come la raffigura Edwin Long, doveva essere ricca se possedeva una stanza al piano superiore. Quando si ammala e muore, sono altre vedove ad occuparsi di lei, la lavano e la depongono, appunto, al secondo piano della casa. Non aveva dunque parenti prossimi. Era vedova e senza figli. L’opera di Long annuncia il dramma che avviene in questo piano superiore. Alle pareti ci sono dei graffiti che raffigurano il buon pastore e un pavone. Il pavone annuncia la morte, ma anche la risurrezione di Dorcas, mentre il buon Pastore è segno della cura che la Chiesa, nella figura di Pietro, ebbe per lei. Pietro, come Gesù, opera il miracolo in grande solitudine, non permetterà che alcuno assista alla sua preghiera. Tabità non appena apre gli occhi, pur senza conoscere Pietro, mostra subito di capire chi le sta davanti e si pone a sedere, assumendo così la postura del discepolo. Pietro allora la consegnò viva, dice il testo, ai santi (in italiano leggiamo “ai credenti”) e alle vedove.
La condizione delle vedove era particolare, nei primi secoli della Chiesa, e la conosciamo bene dalle lettere di Paolo (cfr 1 Cor 7-9; 1Tm 5,3-14; 1Tm 5,16). Per evitare abusi ed equivoci (alcune vedove erano oziose e di facili costumi, specie se giovani) la Chiesa volle che le più giovani si risposassero e le più facoltose si occupassero delle vedove meno in difficoltà. A quelle più indigenti sarebbero stati gli apostoli stessi ad incaricarsene. Ora la lettura profonda di Edwin Long, mostra, nella sua tela, che Dorcas pur essendo giovane e vedova e senza figli, non si risposò ma consacrò la sua vita alla custodia di altre vedove, costituendo così una delle prime comunità religiose della storia della Chiesa. I mantelli e le tuniche che queste, dopo la morte di Dorcas, mostrarono a Pietro dovevano essere di squisita manifattura, tanto da testimoniare in modo eloquente la carità e l’amore di questa discepola.
Tanto fecondo è stato il suo esempio nei secoli che nacque in Inghilterra la Dorcas Society alla quale, Edwin Long, dedica la tela. Questa società di sole donne confezionava abiti per i poveri, nell’opera, infatti, si vede Tabità e le sue amiche che confezionano abiti per gli indigeni. Quando iniziò l’era dell’industrializzazione, le fondatrici della Dorcas Society seppero coglierne l’opportunità. Si associarono al signor Singer e fabbricarono macchine da cucire facili nell’uso. In tal modo esse vollero favorire quelle donne che per condizioni umili non riuscivano ad acquisire una buona tecnica nel cucito. Nacque così la The Singer Dorcas Society, ispiratasi all’esempio di santa Tabità. Non a caso dunque la santa, che si festeggia il 25 ottobre, è divenuta patrona delle sarte. La storia della Chiesa, proprio nelle sfide che ha dovuto affrontare è divenuta, attraverso i suoi santi, motivo di ispirazione per infinite opere di carità. Tabità ci insegna anzitutto una fede che opera per mezzo della carità e, soprattutto l’accettazione della realtà. Imparare ad essere ciò che si ha da essere, consacrando a Dio tutto, anche gli aspetti meno positivi della vita è fonte di gioia per sé e per altri. Solo così si potrà veder risorgere i propri limiti e scoprirli come invece propulsivi dentro la società e la storia.

suor Gloria Maria Riva, giugno 2023

Priscilla ed Aquila

La vocazione alla maternità e paternità spirituale

La lettura del libro degli Atti è affascinante: lascia trasparire una rete di relazioni e di carismi inimmaginabile. Dopo aver considerato il carisma stupendo dei Diaconi vediamo ora un’altra forma di Diaconia, forse presente anche in molti dei nomi che Luca ci ha elencato, ma certo non mai esplicitata. Si tratta della diaconia della coppia, persone sposate con vita e attività proprie che si mettono umilmente, ma consapevolmente a servizio degli Apostoli, come Priscilla ed Aquila. Aquila è un ebreo, nato nel Ponto, l’attuale Turchia: immigrato a Roma, conosce, si innamora e sposa una donna romana chiamata Priscilla. Insieme avviano una fabbrica di tende, insieme si convertono al cristianesimo. Nella città eterna non possono restare a lungo: l’editto promulgato dall’imperatore Claudio nel 49 prevede l’espulsione di tutti i giudei, accusati di fomentare tumulti. Si trasferiscono a Corinto, città cosmopolita dove il culto di Afrodite è fiorente. Qui incontrano Paolo, lo ospitano in casa e lo fanno lavorare con loro perché possa provvedere al necessario per la sua vita senza essere di peso a nessuno. Il mestiere di fabbricatore di tessuti di pelo doveva essere ben noto a Paolo, dal momento che la sua patria, la Cilicia era famosa proprio per l’industria di tessuto di pelo caprino, il cilicium appunto.
Quando Paolo decide di far ritorno in Siria i due sposi lo accompagnano per un tratto del viaggio e si fermano ad Efeso. A rischio della vita. Paolo vi rimane per più di due anni fondandovi una Chiesa. Aquila e Priscilla, mai abbandonando l’attività commerciale, lo aiutano nella formazione dei nuovi convertiti: in particolare curano l’iniziazione cristiana di Apollo, un giudeo alessandrino, molto versato nelle Scritture, edificato e affascinato dalla loro catechesi, resa credibile dalla testimonianza di reciprocità e oblazione sponsale. La grande casa efesina acquistata dagli sposi diviene presto un punto di riferimento per la neonata comunità che qui si riunisce per ascoltare la Parola e celebrare l’Eucaristia. L’Apostolo vi soggiorna ricordando sempre con gratitudine l’accoglienza premurosa dei due amici che per salvargli la vita – scrive ai Romani – “hanno rischiato la testa”.
Un’icona moderna ci permette di entrare nella casa di questi due coniugi. Si esprimono qui efficacemente i due diversi modi di servire il Signore Gesù. Aquila e Priscilla sono seduti vicinissimi, proprio come una sola persona. Essi incarnano quell’ideale evangelico dell’essere un cuore solo e un’anima sola. La loro casa è armonica nei colori e nelle sue geometrie; nella finestrella centrale compare il segno della croce. Questa casa è davvero in tutto simile a una chiesa. Se Aquila è in piedi e fissa san Paolo, Priscilla è seduta e tiene sulle ginocchia un bambino, che rappresenta Apollo. Ella lo educa alle verità della fede e alla via di Dio. La coppia nel loro stare in casa e in famiglia esprimono la spiritualità del restare. Apollo, pur essendo un letterato, è piccolo nella fede, ha necessità che qualcuno lo instradi introducendolo nella totalità del mistero.
Di fronte a loro sta invece san Paolo. La tela che tiene fra le mani pare indicare un lavoro terminato e, quindi, un contributo all’economia familiare soddisfatto. Tuttavia i suoi piedi indicano già l’urgenza di passare altrove, di camminare per diffondere il Messaggio evangelico. Paolo guarda Aquila con uno sguardo di complicità; nell’unione dei cuori, di chi resta e di chi viaggia, si esprime la medesima Diaconia della Chiesa: annunciare Cristo.
Paolo ed Apollo manifestano una spiritualità dell’andare, essi non sentono la chiamata a radicarsi in un luogo e a crescere in esso, sono apostoli, annunciatori di un messaggio. Paolo, in particolare, fonda numerose comunità nei suoi viaggi missionari, ma raramente si ferma a curarne lo sviluppo e la crescita. Mantiene con i suoi cristiani i contatti, si preoccupa per essi e per la loro fede, ma non si sente chiamato a coltivarne in modo diretto e quotidiano lo sviluppo.
Aquila e Priscilla invece manifestano una spiritualità del restare. Ovunque si trovano praticano l’accoglienza, attorno a loro si crea un ritmo di vita regolare, dove ciascuno trova la sua dimensione. Nelle comunità è importante che si scoprano queste diversità di carismi e si rispettino valorizzandole entrambe. I due coniugi esprimono anche nella fede il loro essere coppia, loro principale vocazione, e vivono nei confronti dei fratelli una maternità e una paternità spirituale.

suor Gloria Maria Riva, maggio 2023

Diaconi della pace e della parola

I due precetti ugualmente cari a Dio

Immagine: Santo Stefano riceve il diaconato(part), Beato Angelico 1447–1448, affresco Cappella Niccolina (Palazzo Apostolico), Città del Vaticano

Nella Cappella Niccolina (Vaticano), il Beato Angelico, con l’aiuto di Benozzo Gozzoli, ci restituisce la scena solenne della consacrazione dei sette diaconi. Nella cornice di uno scorcio prospettico meraviglioso, il primo realizzato a Roma, Stefano è inginocchiato di fronte a Pietro mentre gli altri sei sono in attesa. Secondo la tradizione, i prescelti erano parte di quei settantadue discepoli inviati da Gesù ad evangelizzare. Il clima in cui avviene questa elezione è teso e rimanda a un episodio del libro dei Numeri. Il brano di Atti 6, infatti, inizia così: In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana.

La mormorazione

Laddove la CEI traduce «sorse un malcontento», il testo degli Atti dice letteralmente: incominciarono a mormorare. Il termine utilizzato è lo stesso che nella Bibbia dei LXX, descrive la gente raccogliticcia (i non ebrei presenti fra il popolo) che mormora contro Mosè e Aronne. Si traccia così un parallelo con la nascente comunità cristiana in cui alcuni ellenisti, cioè ebrei di lingua greca, si lamentano perché le loro vedove non ricevono in modo adeguato il servizio della carità. Gli ellenisti usavano trascorrere gli ultimi anni della loro vita a Gerusalemme per esservi sepolti, cosicché fra loro il numero delle vedove era più alto. Come già Israele nel deserto, la comunità cristiana conosce la prova e, con essa, la mormorazione. Mormorare è l’atteggiamento di chi non pone ogni sua fiducia in Dio, di chi si vede disatteso nelle sue aspettative e non si apre ad una lettura di fede. La vita quotidiana con i suoi imprevisti, con il verificarsi di piccole o grandi ingiustizie mette alla prova, logora i rapporti e fa emergere le diversità fra le persone trasformandole in ostacoli alla pace e alla comunione.

Sette Diaconi

Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. I dodici, rappresentanti le dodici tribù di Israele, si trovano a dover intervenire fra due precetti ugualmente cari a Dio: l’annuncio della Parola e il soccorso alle vedove. Essi, da un lato, ritengono primario “servire la Parola”, dall’altro tengono in considerazione le lamentele sorte all’interno di fedeli non ebrei. Eleggono pertanto, sapientemente, sette uomini di buona reputazione i cui nomi: Stefano, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola rivelano una provenienza ellenica. «Dodici e sette» non sono numeri casuali. Luca utilizza qui il termine «dodici» (cosa per lui rara) per accentuare la portata simbolica dell’evento: il rimando alla moltiplicazione dei pani nelle due versioni. Una narra come da 5 pani e 2 pesci (simbolo della Scrittura fatta dai 5 rotoli della torah, e da altri 2 rotoli dei profeti e degli altri due scritti), avanzarono 12 ceste; l’altra, invece, racconta il miracolo a partire da 7 pani. Se il 12 indica le tribù di Israele, il 7 rimanda ai popoli presenti in Palestina all’arrivo degli ebrei, e simboleggia perciò tutte le popolazioni pagane. Proprio attraverso il numero sette si vuole indicare quell’umanità alla quale la Chiesa è inviata.
I sette prescelti non sono mai chiamati diaconi dal testo degli Atti, mentre è ripetuta la parola diakonia (= servizio). Fu questa funzione a far sì che in seguito fosse dato loro questo nome. La loro diaconia non si esaurisce nel servizio della carità, oltre a svolgere un ruolo pacificatore all’interno delle diverse presenze nel popolo cristiano, essi sono inviati, come si vedrà nel libro degli Atti, a predicare la Parola. Del resto protagonista di questo episodio è la Parola. Con essa si apre e si chiude il brano (vv. 2 e 7). Nonostante il grande rispetto che la Rivelazione riserva alle categorie più povere, come l’orfano e la vedova, qui si evidenzia come la Chiesa non sia un’associazione filantropica, ma Sacramento di Salvezza nel tempo il cui compito principale non è già l’assistenza agli indigenti, quanto la distribuzione della mensa della Parola e del Corpo di Cristo.

Dare il Dio della Parola

Lo stesso beato Angelico nel suo affresco testimonia questa lettura «liturgica». Due dei sei diaconi sullo sfondo, reggono un libro e un rotolo, simboli del Primo e del Nuovo Testamento; san Pietro consegna a santo Stefano calice e patena, simboli del nutrimento eucaristico e della sua prossima partecipazione al Sacrifico di Cristo con il martirio. Il brano, supportato dal commento pittorico dell’Angelico, ci invita dunque a riflettere come le attività caritative nascano da una risposta personale alla Parola di Dio che chiama. Oggi si ha una grande sensibilità nei confronti delle attività di volontariato, ma occorre vigilare che dietro ad esse non si nasconda un certo desiderio di protagonismo.
È la Parola di Dio e quindi il Dio della Parola che va annunciato e portato: questo è il bene necessario che nessuno ci potrà togliere. Il Pane della Parola sorregge nei momenti di aridità. Illumina per risolvere i problemi pratici della vita. Essa moltiplica i discepoli e converte i cuori e tutti noi siamo chiamati a comunicarla, in forza del nostro battesimo.

Suor Maria Gloria Riva, aprile 2023