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Il Concilio di Gerusalemme

Sfida alla comunione fra gli Apostoli

Immagine: icona moderna che rappresenta la Chiesa del “Concilio di Gerusalemme” descritto negli Atti degli Apostoli.

Premessa

Il battesimo di Cornelio avvenne, seguendo la datazione più accreditata, nel 34 dC; tre anni dopo, nel 37, nasce ad Antiochia la prima comunità cristiana dove i seguaci di Gesù, comprendenti giudei e pagani, per la prima volta sono chiamati cristiani. Barnaba e Paolo rimangono ad Antiochia per un anno ed è proprio in questo contesto che la domanda circa l’ammissione dei pagani alla fede in Cristo senza farli passare dalle prescrizioni della legge di Mosè si fa più acuta. Il brano che narra del Concilio di Gerusalemme (At 15) parte proprio da questa difficile situazione della Chiesa antica dove Pietro, pur avendo battezzato Cornelio, era stato costretto più volte a frenarsi nel suo rapporto con i pagani subendo anche il rimprovero dello stesso Paolo (cfr Gal 2, 11-14). C’è sempre qualcuno che non accetta le disposizioni prese dall’autorità e, se nelle diatribe l’istinto porta ad isolare o isolarsi, nella prima comunità cristiana c’era invece l’abitudine di riunirsi per dirimere le contese e condividere le esperienze. Lungo il libro degli Atti sono numerosi gli esempi che Luca offre di questa consuetudine (cfr At 15,4.16).

Il discernimento nella primitiva comunità cristiana
Lo scopo della riunione appare chiaro. Non si tratta di stabilire quale sia il parere della maggioranza in merito ai pagani, ma di comprendere cosa voglia il Signore. Nel testo emergono tre posizioni che possono illuminarci circa gli strumenti che una comunità può usare per operare un vero discernimento.
L’agire di Dio nella storia: Paolo e Barnaba, missionari, partono da esperienze concrete. Essi parlano di ciò che Dio ha fatto per mezzo loro fra i pagani, guardando all’agire di Dio nella storia (cfr. 14,27; 15,4; 15,12).
L’agire di Dio nei cuori: Pietro invece, essendo eminentemente Pastore, si basa, nel suo discernimento, su ciò che Dio opera nei cuori (At 15,8-9).
La testimonianza delle Scritture: Giacomo infine discerne additando la testimonianza delle Scritture (15,15-19), e cita un passo di Amos che nella bibbia greca interpreta l’ebraico in chiave universalistica. È la voce del magistero che vaglia esperienze e intuizioni spirituali alla luce del dato rivelato.
Questi tre elementi costituiscono una griglia capace di mettere al vaglio le situazioni e stabilire, almeno in parte, quanto esse vengano da Dio e conducano alla Verità e quanto invece siano opera dell’uomo o, per lo meno, invitino alla prudenza. La prudenza dell’agire è evidente nel tempo di maturazione che ebbe tutta la contesa. Dalla conversione di Cornelio (34-45 dC) sono trascorsi dieci anni (Concilio di Gerusalemme 46 dC); lo fa presente Pietro nel suo discorso: voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del Vangelo. In questi dieci anni il Principe degli Apostoli ha preso tempo, non si è affrettato a trovare regole e soluzioni al problema, ma ha lasciato che tutti avessero un tempo necessario per discernere e interrogarsi, al fine di giungere insieme alla verità.
Un’icona moderna ci aiuta a rendere visivo questo primo Concilio della storia della Chiesa, In alto in ebraico si trova scritto: Knesset (assemblea) dei Governanti a Gerusalemme. La città di Gerusalemme si trova al centro, sullo sfondo. Due scritte sopra le città laterali ne indicano l’identità: a destra Antiochia, a sinistra Giaffa. Si allude così ai due luoghi dove la volontà di Dio si manifestò attraverso i fatti.
Pietro e Paolo sono ai lati di un personaggio misterioso che reca i paramenti liturgici del Celebrante. Pietro reca il rotolo della Torah, dal quale pendono le chiavi, suo principale attributo. Ai piedi la scritta ebraica: Simone. Dall’altra parte Paolo reca un libro, simbolo del Nuovo Testamento, sotto la scritta col nome Saul. Dietro a Paolo c’è, Barnaba, riconoscibile per la scritta bar-nabah; anch’egli, come Pietro regge un rotolo. A differenza del gruppo di sinistra, ritratto frontalmente, Paolo e Barnaba sono colti nell’atto di sopraggiungere in quel momento e di doversene presto andare. Essi rappresentano così le urgenze pastorali.
L’identità del personaggio centrale la rivela la scritta sottostante: Jacob. È il patriarca Giacobbe che dà il nome a Israele, ma è anche Giacomo il minore. Questi dirime la questione citando il profeta Amos (cfr At 15, 13-19).  «Quel giorno io rialzerò la capanna di Davide che è caduta, ne riparerò i danni, ne rialzerò le rovine, la ricostruirò com’era nei giorni antichi, affinché possegga il resto di Edom e tutte le nazioni sulle quali è invocato il mio nome», dice il Signore che farà questo». Egli è centrale e veste i paramenti sacri perché la sua parola è definitiva. Ai pagani sarà chiesto di osservare solo i sette comandamenti attribuiti a Noè (un uomo giusto che si colloca prima della rivelazione di Dio fatta ad Abramo). Tali comandamenti, detti noachidi, sono considerati la legge naturale dell’uomo. Nell’Icona la parola «possesso» è modificata con «eredità». La Chiesa, per il Concilio di Gerusalemme, eredita le nazioni pagane sulle quali pure è il nome di Dio. Simboli ebraici e cristiani riposano sull’altare: il calice dell’ultima cena; la patena col pane eucaristico, il rotolo dell’Antico Testamento e la menorah. Dunque nell’incontro e nella comunione, attraverso gli eventi della vita; il confronto con la Parola di Dio e la Parola del Magistero rappresentata da Pietro si ha la certezza di seguire la via che il Signore ha indicato entro le strade tortuose della storia umana.

suor Gloria Maria Riva, marzo 2023

La tovaglia di Pietro

Scena affascinante degli Atti degli Apostoli

Immagine: Federico Zuccari, Il sogno di Pietro, particolare dell’affresco, 1580-1585 circa. Cappella paolina, Vaticano

È Federico Zuccari, artista attivo anche nella nostra Diocesi, che ci permette di vedere una delle scene più affascinanti degli Atti degli Apostoli: la visione della tovaglia occorsa a Pietro. Come accade nella conversione di Saulo, l’evento è accompagnato da un’altra visione avuta da un centurione di nome Cornelio. Con l’espediente della doppia visione, Luca suole indicare l’agire divino nella storia. Questo episodio, pur coinvolgendo Pietro e Cornelio, ha una portata superiore rispetto alle loro persone, si rivelerà infatti, importante per l’intera comunità umana.
Cornelio era un pagano, centurione romano della corte Italica, residente a Cesarea. Egli vide un angelo che lo invitava a cercare un uomo di nome Simon Pietro, ospite a Giaffa. Pietro avrebbe indicato, a lui e alla sua famiglia, la salvezza tanto cercata in preghiere ed elemosine. Anche l’Apostolo ha una visione. Lo Zuccari la racconta in un affresco (1580-85) della Cappella Paolina che si trova, non a caso, accanto a quello della crocifissione di Pietro, realizzato da Michelangelo (1546-50). Roma sarà il luogo del martirio della Chiesa, ma anche il luogo del suo maggiore sviluppo. Che a Pietro sia proprio un italico romano ad indicare il nuovo corso della fede dice già il senso profondo del suo martirio: l’ingresso di tutti gli uomini (anche pagani) nella fede. Infatti, se Cornelio ha la visione dell’angelo all’ora nona, ora della morte del Cristo; Pietro ha la sua visione all’ora sesta: l’ora della sete di Gesù.
Lo Zuccari descrive il cielo chiaro e luminoso del mezzogiorno con Pietro affacciato a un alto edificio. L’ora sesta è l’ora del sole allo zenit; l’ora in cui Gesù, incontrata al pozzo una samaritana, ebbe sete. Quella richiesta: «Dammi da bere!» alludeva alla sete che egli aveva delle anime più lontane dalla salvezza. In questa stessa ora, benché fosse in uso presso i romani mangiare a mezzogiorno e non presso gli ebrei, Pietro ebbe fame. Una fame simbolica: allusione alla fame di verità patita dai pagani e che Pietro era chiamato a saziare.
L’artista lo descrive assopito mentre attende il pasto. Questo sonno misterioso è un tardemah, un sonno mistico che attraversa tutta la Scrittura e che precede le grandi rivelazioni: dal sonno di Adamo, prima della nascita di Eva, fino al sonno degli apostoli sul monte Tabor. Lo Zuccari descrive puntualmente la narrazione degli Atti: Vidi in estasi una visione: un oggetto, simile a una grande tovaglia. Scendeva come calato dal cielo per quattro capi e giunse fino a me. Fissandolo con attenzione, vidi in esso quadrupedi, fiere e rettili della terra e uccelli del cielo.
I quattro capi della tovaglia rappresentano i quattro punti cardinali, dunque tutta la terra. L’oggetto della tovaglia rimanda al grande banchetto di cibi grassi e succulenti promesso dai profeti a tutti i popoli, segno del tempo messianico (cfr. Is 25,6). Nella tovaglia ci sono, infatti, animali puri, cioè commestibili secondo le leggi alimentari ebraiche, e impuri, cioè proibiti agli ebrei ma commestibili presso i pagani, in essa vi è dunque simboleggiata la totalità dell’umanità. La tovaglia, unita alla fame di Pietro, è anche un potente rimando all’Eucaristia e a quella cena nella quale Cristo stesso dispensa se stesso per cibo: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6,54).
Una voce irrompe dal cielo: Pietro: alzati, uccidi e mangia! L’espressione «uccidi», in greco, indica l’azione sacrificale. A Pietro viene intimato di immolare e consumare animali impuri alla stessa stregua di quelli puri. Si comprende dunque la ritrosia dell’Apostolo ad obbedire. Tuttavia, come fu scandaloso per alcuni ebrei l’invito di Gesù a cibarsi della sua carne e del suo sangue, così Pietro deve superarsi, prendendo coscienza del contenuto profetico della visione.
Alla luce dei fatti che seguiranno, quella tovaglia invita ebrei e pagani a sedere alla medesima mensa e a cibarsi del medesimo cibo di salvezza. Non solo, la visione si ripete tre volte: la tovaglia scende dal cielo e per tre volte vi ritorna. La voce che ode Pietro, dunque, è quella del Signore e la disposizione ad aprire ai pagani la porta della salvezza viene dall’alto, dalla Trinità.
Proprio sotto la finestra dove Pietro è assopito si avvicinano dei soldati. Sono gli uomini di Cesarea citati dagli Atti che vanno a chiamare l’Apostolo. A conferma del carattere divino dell’evento è lo Spirito che ingiunge a Pietro di seguirli. La sottolineatura è importante: la Chiesa è spinta dallo Spirito a varcare frontiere inesplorate. Non i ragionamenti umani o le consuetudini, ma le indicazioni divine attraverso eventi della storia che si intrecciano, rendono manifesto a Pietro il volere di Dio.

suor Maria Gloria Riva, febbraio 2023

Illusione e abbandono nella conversione di Paolo

Nella Chiesa e nei sacramenti la nostra forza

Immagine: Bibbia miniata Conversione e battesimo di san Paolo, 1200 – Biblioteca Nazionale dei Paesi Bassi, Paesi Bassi

La conversione di Saulo in Paolo ci aiuta a ripercorrere il cammino di conversione che la Chiesa ci indica nei tempi forti, come quello dell’Avvento e del Natale, della Quaresima e della Pasqua. Più che passare da una fede ad un’altra, convertirsi è principalmente rendersi coscienti del bisogno di salvezza, passare cioè dall’illusione di farcela da soli all’abbandono verso un Dio che ci ama e conosce le nostre necessità. Saulo era un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, cresciuto a Gerusalemme, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio (cfr At 22,3) e credeva suo dovere “lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno” perseguitando i suoi discepoli (Cfr. At 26,9-11). Egli era profondamente religioso, tuttavia “non considerava Dio come Dio, autore e origine di ogni bene; ma al centro di tutto c’era il suo possesso, la sua verità, i tesori che gli erano stati affidati” (C.M. Martini).
Saulo vive il tempo con illusione, pone la sua forza in ciò che gli appartiene e mai avrebbe ammesso di essere fragile. Gesù aveva messo in guardia i farisei dalla tentazione di salvarsi da se stessi. Saulo soffre del medesimo peccato e il Signore entra nella sua vita ribaltando la situazione, lo scuote facendogli prendere coscienza del suo essere bisognoso di salvezza.

E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?».

Questa caduta, sul piano simbolico, indica il rovesciamento delle prospettive cui Saulo è condotto da Dio. Egli si rende conto di quanto fosse gratuita la sua violenza contro i cristiani: «Io mi gloriavo della mia giustizia; sono diventato giustiziere degli innocenti» (C. M. Martini). Tutta la religiosità di Saulo crolla sotto il peso di quella luce: pur senza saperlo, usando violenza verso i fratelli, Saulo perseguitava Cristo. Egli impara qui quel grande Mistero della Chiesa come Corpo di Cristo di cui sarà testimone. Questa caduta, tuttavia, non lo getta nello sgomento, cadono è vero le illusioni ma si apre qui, per Paolo, un tempo di riflessione.

Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare

Il tempo della riflessione è attesa silenziosa della volontà di Dio. Un’attesa tanto radicale da essere evidente anche nel fisico: Paolo è costretto all’immobilità e all’abbandono a causa di un’improvvisa cecità: E poiché non ci vedevo più a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni giunsi a Damasco. Saulo, cieco e sottomesso ai compagni, è l’immagine dell’uomo peccatore, disorientato e schiavo del peccato, che lentamente si apre alla grazia di Dio e si lascia guidare alla salvezza. Nella conoscenza del suo peccato Saulo incontra l’amore di Dio. La cecità di Paolo non è tanto un castigo, quanto il segno stesso della sua missione. Proprio perché egli ha vissuto, in prima persona questo passaggio dalle tenebre alla luce diviene testimone e ministro delle cose sperimentate. L’incontro con Dio gli fa comprendere più a fondo la sua vocazione.

Illusione e abbandono di Paolo nell’Arte

In tutti i racconti della conversione di Saulo a Paolo, mai viene menzionato il cavallo. Eppure connessa alla conversione di Paolo è immancabile la caduta da cavallo. In realtà, nell’arte, esistono diverse conversioni di Saulo dove il cavallo è totalmente assente. La caduta dal destriero si affermò nel medioevo perchè nella simbologia medievale il cavallo era immagine di indomita superbia. Un miniaturista francese racconta in modo sorprendente questo passaggio dall’illusione all’abbandono dell’Apostolo. Nella parte bassa della pagina miniata, a sinistra, si vede sbucare dalle nubi del cielo la mano del Cristo che regge un cartiglio con la scritta (in latino): «Saulo, Saulo perché mi perseguiti?».
Saulo non cade ma si piega sul cavallo come vinto dalla luce che viene dal Cielo. Il suo abito, infatti, è illuminato della stessa luce che investe il cartiglio. Gli occhi chiusi, rimando alla sua cecità, e le braccia appoggiate al destriero, totalmente inerti, dicono l’abbandono di Paolo a quella luce. Il cavallo, compartecipe dell’evento, pare colto nell’atto di inginocchiarsi.
Nella parte destra della pagina miniata. L’epilogo della vicenda: il discepolo Anania apre gli occhi al futuro Apostolo con il battesimo. Nel libro degli Atti degli Apostoli si narra come Cristo avesse già istruito la sua Chiesa nella persona di Anania per insegnare a Paolo la sua nuova missione. Per giungere a ciò tuttavia Saulo deve ricevere i sacramenti: Allora Ananìa andò, entrò nella casa, impose a Sàulo le mani […] fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono. Attraverso Anania, dunque, Saulo riceve il battesimo e il nutrimento eucaristico, come sembra alludere il prendere cibo di Atti 9,19. Anche al grande Apostolo delle genti fu dunque necessaria la Chiesa per diventare quella luce delle genti che Cristo gli preconizzò proprio nel momento della sua cecità. Noi pure dunque siamo talora chiamati a confortare gli altri proprio nelle difficoltà che attraversiamo e troviamo nella Chiesa e nei sacramenti la forza necessaria per testimoniare quanto Cristo ha fatto per noi.

suor Maria Gloria Riva, gennaio 2023

Anania e Saffira

Come vivere e come morire?

Masaccio 1425-1428 Distribuzione delle elemosine e morte di Anania. Affresco 230×170 cm. Cappella Brancacci. Chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze

Tanto è solare il ritratto di Barnaba quanto è oscuro e ambiguo quello dei due coniugi Anania e Saffira (At 5,1-10). Tale presentazione non nasconde certo una sottile critica al matrimonio, dato che proprio le famiglie saranno il fulcro delle prime comunità cristiane, ma vuole educare i credenti ad agire in totale trasparenza e a donare col cuore.

“Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere”
Il testo greco dice letteralmente “un certo Anania”. Anania era un nome non meno comune di Giuseppe al tempo di Cristo, pertanto impressiona qui, diversamente dall’episodio di Barnaba, l’assenza di precisazioni se non quello del nome della moglie Saffira. Quest’uomo vende “un” suo podere, pertanto, a differenza di Barnaba forse non era neppure l’unico in suo possesso. Nonostante ciò, egli “tenuta per sé una parte dell’importo d’accordo con la moglie, consegnò l’altra parte deponendola ai piedi degli apostoli”. L’espressione “tenere per sé” indica propriamente il “trattenere con frode”. Troviamo lo stesso verbo nella versione greca del libro di Giosue (cap. 7) quando Acar trasgredisce la legge di Dio per fini propri. Ciò dimostra che già agli inizi della vita della Chiesa, non tener conto dell’autorità degli Apostoli, come fece Anania, era considerato una trasgressione della legge divina.
Perciò Pietro reagisce con parole forti: “Anania, perché mai satana si è così impadronito del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto una parte del prezzo del terreno? Prima di venderlo non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione?”. Condividere i propri beni era un atto libero: mettere in comune denaro e proprietà era una consuetudine, non un obbligo. Il peccato di Anania non fu quello di non aver dato tutto, quanto piuttosto quello di aver agito con doppiezza fingendo una generosità e una radicalità che non possedeva. Satana ha riempito il suo cuore, cioè l’ha indotto alla menzogna e alla finzione, impedendogli di radicare la sua fede nella verità di ciò che era, la quale, per quanto povera, sarebbe stata certamente ben più accetta a Dio dell’ipocrisia. Egli non ha saputo condividere la sua debolezza, non ha dato se stesso, ma ciò che di sé voleva far credere. 

«“Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. All’udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò».
Questa è la reale morte di Anania, l’aver mentito a Dio. Non si è accostato alla fede come a un dono, ma come a un interesse. Deporre il proprio dono davanti agli apostoli era deporlo davanti a Dio. La parola di Pietro ha fatto sì luce nel suo cuore, ma questa verità, a differenza di quanti a Pentecoste si sentirono muovere il cuore e si convertirono, fu per Anania una lama a doppio taglio che lo uccise.

“Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò anche sua moglie, ignara dell’accaduto”
L’episodio di Saffira è costruito in parallelo a quello del marito. Pietro rivolgendo a Saffira la domanda circa il prezzo della vendita del campo, spera nella sua innocenza e nella sua estraneità riguardo alle decisioni del marito, ma non fu così. Anania e Saffira agirono con doppiezza dimostrando come la loro relazione con Dio, mediata dalla relazione con gli apostoli, non era sincera e la loro appartenenza alla comunità era vissuta in modo subdolo. Dietro a queste morti fisiche si vuole perciò raccontare la morte spirituale che colpisce chi non è fedele al dono ricevuto da Dio, chi non traffica il proprio talento mettendolo a servizio di Dio e dei fratelli. Costui, mentre condanna se stesso all’infelicità, nuoce anche alla comunità.

“Anania e Saffira” nell’arte
A Firenze, nella Cappella Brancacci, un capolavoro di 40 metri quadri dipinto a più mani, si trova l’episodio di Anania e Saffira realizzato da Masaccio. Gli edifici retrostanti la scena, che riproducono la città di Firenze, trovano il loro punto focale al di fuori della scena stessa e precisamente nella figura di Pietro, la cui ombra guarisce gli infermi, collocata nell’affresco del lato opposto. Masaccio in tal modo afferma come l’autorità di Pietro, grazie al mandato di Gesù, coincida con la volontà stessa di Dio. Pietro veste il manto giallo dell’elezione ed è intento a distribuire i beni ai poveri, quei beni che grazie a Barnaba e ad altri come lui, contribuiscono a edificare la comunità cristiana. La statuaria compostezza di Pietro e Giovanni si oppone ai due corpi stesi e senza vita di Saffira, in primo piano e di Anania il cui corpo si profila poco dietro la moglie. Un solo volto guarda verso di noi ed è probabilmente quello di Barnaba il quale sembra invitarci alla riflessione: come vivere e come morire? Vivere nella certezza di un dono di sé che edifica, come appunto fu per lui, Barnaba, o vivere nella doppiezza che uccide, similmente ad Anania e Saffira? È la domanda cui ciascuno di noi deve rispondere con la vita.

suor Maria Gloria Riva, dicembre 2022

Barnaba e il dono di sé

Sandro Botticelli, Pala di San Barnaba, 1487 tempera su tavola 268×280 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze

San Luca al capitolo 4 degli Atti degli Apostoli presenta un secondo sommario (il primo era al capitolo 2) nel quale delinea le caratteristiche delle prime comunità cristiane: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4,32-35). Questo sommario mette a fuoco un tema caro a Luca: l’unità dei cuori trova un riflesso immediato, per la comunità dei credenti in Cristo, nella comunione dei beni materiali. I sommari di Luca sono spesso definiti l’utopia delle origini, ma in realtà secoli e generazioni di credenti, prelati e vescovi, monaci e monache, religiosi e religiose, laici celibi e sposati, si sono continuamente ispirati a questa regola di vita. Luca non ha promosso però (e l’antica Regola agostiniana lo testimonia) un’uguaglianza fra i membri della comunità intesa come livellamento del tenore di vita ma, al contrario, ha incoraggiato il superamento del confronto vicendevole perché ciascuno fosse considerato e aiutato a partire dal bisogno personale. Dopo la descrizione della prima comunità cristiana ecco che Luca offre, come in una sorta di dittico, gli esempi di Barnaba e quella di Anania.
La vicenda di Barnaba conclude il capitolo 4 ed è esplicitamente citata come esemplificativa di quanto affermato sopra, tanto che il testo inizia, appunto con un «così»: “Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Bàrnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli” (At 4,36-37). Benché si tratti di uno schizzo brevissimo, in questi due versetti si traccia un ritratto solare e denso di particolari: il nome proprio, Giuseppe; il soprannome, Barnaba; il significato del soprannome; la tribù di appartenenza, Levi e il luogo di origine, Cipro.
Giuseppe sembra essere molto conosciuto dagli apostoli, infatti il soprannome Barnaba, non solo lo distingue dagli altri eventuali (e probabilmente numerosi) Giuseppe, ma stigmatizza anche lo speciale dono che egli aveva da Dio, quello di esortare e consolare. Luca, dando la spiegazione del soprannome, fornisce al lettore non tanto la traduzione letterale, quanto il senso che veniva comunemente dato all’appellativo. Sembra infatti che Barnaba significhi più probabilmente «figlio della profezia» (dall’aramaico bar = figlio e nebuáh = profezia). Esortare era comunque, secondo san Paolo (cfr. 1 Cor 14,3), il carisma principale dei profeti. Il fatto poi che, a Giuseppe, il soprannome venga assegnato direttamente dagli apostoli, conferisce al nomignolo il valore di un nome nuovo, di una nuova identità in vista dell’appartenenza alla comunità.
Nonostante il comportamento di Barnaba non fosse certamente unico, poiché era consuetudine fra i cristiani mettere ogni cosa in comune, il versetto 37 ci rivela come la generosità di Barnaba fosse particolare. Secondo il diritto ebraico, i discendenti della tribù di Levi, e dunque anche lo stesso Barnaba, non potevano avere né possedimenti, né eredità, almeno in terra di Israele. Quel campo venduto da Giuseppe era certamente ubicato fuori dalla Terra Santa (forse nella stessa isola di Cipro dalla quale egli proveniva) e doveva essere l’unico suo possesso. Egli dunque vende, col campo, tutto ciò che ha e consegna l’intero ricavato agli apostoli. Cosa che, come vedremo, non faranno Anania e Saffira.
La radicalità e disponibilità di Barnaba a condividere tutto di sé si mostrerà vera anche lungo tutto il racconto degli Atti. Sarà Barnaba, ad esempio, a presentare Saulo ai discepoli, i quali faticavano a credere nella conversione dell’antico persecutore, esortandoli a fidarsi di lui (At 9,27). Sarà ancora Barnaba a constatare, ad Antiochia, la conversione dei primi pagani e a esortare i fratelli a perseverare confidando nell’aiuto di Dio (At 11,23-24). Ancora Barnaba affiancherà Paolo nella missione ritirandosi progressivamente e con umiltà di fronte al carisma missionario dell’Apostolo delle genti; implicato poi, in un litigio fra Paolo e Marco egli farà da paciere fino ad ottenere la riconciliazione fra i due. Da questi soli accenni vediamo emergere il profilo di un uomo fedele al dono ricevuto, quello indicato dal soprannome conferitogli dagli apostoli: esortare e consolidare i fratelli nella fede. Possiamo dunque intuire che il dono gratuito e immediato della sua eredità fu segno e preannunzio di quell’offerta generosa che egli fece di se stesso a Dio e alla comunità.
Una bella opera di Botticelli, dal titolo Pala di San Barnaba, ritrae il nostro santo mentre conversa con sant’Agostino. Se il grande Dottore della Chiesa è ritratto mentre scrive le sue Confessioni, Barnaba regge, invece della palma del martirio (che ha conseguito come tutti gli apostoli), un ramoscello di ulivo, simbolo della sua ricchezza d’animo, d’ingegno e della sua opera di pace. Insieme con l’ulivo Barnaba tiene anche un libro: il vangelo di Matteo. Secondo la tradizione egli morì a Salamina lapidato e con in mano questo Vangelo. Si solleva così anche un’altra piega amara nella vita di questo grande apostolo: pur essendo stato tanto vicino a Marco egli adottò per la sua predicazione il vangelo di Matteo. Forse lo condusse a questa scelta, la prudenza e la necessità di mantenere l’equilibrio nei rapporti. Proprio per questo egli rimane l’esempio di come nella Chiesa le contraddizioni e le liti non devono spegnere lo spirito, ma rafforzare la volontà di donarsi per realizzare quell’essere un cuore solo e un’anima sola, principio e senso dell’essere fratelli in Cristo.

suor Maria Gloria Riva, novembre 2022