Quando i nostri lettori si vedranno recapitare il nuovo “Montefeltro” sarà ormai Quaresima inoltrata e, forse, nei giorni immediatamente prossimi alla Pasqua. Propongo una pagina che può aiutare la meditazione di chi vuol mettersi ancor più forte alla riscoperta della croce, in un’epoca nella quale si fugge dalla croce, salvo poi riempire la vita di tante croci. La pietà popolare ha insistito molto sui particolari riguardanti l’ultimo tratto della vita di Gesù.
Insieme al Rosario si è diffusa, ad esempio, la pratica della Via Crucis, inventata da anime desiderose di «tenere compagnia a Gesù nelle sue pene» (Charles De Foucauld). È estranea al cristianesimo la mistica disincarnata, quella che non tiene conto dell’umanità del Cristo. Divinità e umanità sono inscindibilmente unite nella unicità della sua persona. Questa unità ha consentito al Figlio di Dio di amare con cuore di uomo, di piangere lacrime salate come le nostre, di provare una invincibile angoscia di fronte al suo morire. Il cammino verso il Golgota è stato durissimo. Per Gesù come per tutti i condannati della storia. La Via Crucis immagina cadute, raccoglie lamenti, ripropone incontri. Ma non è fatta per stare a guardare; vien chiesto a chi la percorre di unirsi a tutti gli innocenti: «Fatti prossimo! Non puoi essere da meno del Cireneo».
Il sentimento non basta, non è amore la compassione senza partecipazione. Il pensiero corre ai fratelli perseguitati per la loro fede, in particolare ai cristiani di Siria e del Medio Oriente. È di qualche settimana fa la visita a San Marino di due francescani che ci hanno portato la testimonianza diretta di come si vive ad Aleppo e in altre città, dove manca l’acqua, ci si muove tra le macerie, dove il “13 novembre” è ogni giorno.
Da noi si calibrano le parole per non urtare sensibilità laiche, mentre in Medio Oriente si scrivono pagine di testimonianza con lacrime e sangue. Una precisazione necessaria: noi consideriamo la croce nella prospettiva della risurrezione, della forza, della vittoria. È in forza della risurrezione che vogliamo perseverare nella via della “resistenza”, nell’amore: passiamo da morte a vita perché amiamo i fratelli (cfr. 1Gv 3,14). Difficilmente un artigiano e un orefice antico riuscirebbero a dominare la repulsione di fronte al nostro uso di riprodurre la croce come ornamento, di appenderla al collo, di ornare di essa le case, di metterla in cima ai monti, ecc.
La croce appariva uno strumento orribile e raccapricciante. Paolo non ha esagerato nel qualificare Cristo crocifisso scandalo per i Giudei, follia per i pagani (cfr. 1Cor 1,23). Quando Gesù annunciò la sua morte violenta e prossima, Pietro si ribellò: «Questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22). Di fronte alla croce è impossibile non provare turbamento e un istinto di fuga. Gesù sudò sangue al pensiero del supplizio che lo attendeva. Per la sua personale esperienza non poté fare a meno di esclamare: «Non sanno quello che fanno!». E pregando aggiunse: «Padre, perdonali» (Lc 23,34).
La contemplazione della nascita, benché in circostanze difficili, è pur sempre motivo di gaudio. Qui stiamo salendo l’erta del Calvario, considerando la realtà del dolore. Gesù non ne ha parlato, l’ha condiviso. Celebre la protesta dell’Imitazione di Cristo (uno scritto tra i più letti nella storia della spiritualità cristiana, di autore ignoto). Rimprovera i cristiani incapaci di seguire il Maestro nella salita al Calvario, mentre amano stare con lui nel momento della consolazione: «Gesù conta molti amanti nel suo Regno celeste, ma pochi che portino la sua croce. Tutti vogliono godere con lui, pochi sono disposti a sopportare qualche privazione per lui» (Imitazione di Cristo, II, 11).
«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). Che significato ebbero queste parole sulle labbra di Gesù? Che cosa evocarono negli ascoltatori? Apparirono sicuramente conturbanti. Secondo gli esegeti è un’espressione abbastanza originale, arricchita, dopo la Pasqua, di riferimenti alla Passione di Gesù. Eppure l’abitudine con la quale la usiamo per farci coraggio e rassegnarci ai nostri guai, ne ha sbiadito la pregnanza.
Il detto “portare la croce”, non può essere rimpicciolito al bisogno di fasciare le nostre ferite, né può essere adoperato come analgesico per assorbire i quotidiani fastidi e crucci. Troppo banale. Gesù ha voluto sottolineare come il Regno di Dio sia un valore così grande e decisivo da esigere una disponibilità totale. Ma è estraneo agli insegnamenti di Gesù, e non coerente con il suo stile, estremizzare il detto facendone il manifesto di un volontarismo eroico.
La croce è il segno di un totale affidamento a Dio. Del resto, «chi vive della vita di Gesù non è già stato crocifisso con Cristo?» (cfr. Gal 2,20). «Non è già crocifisso per il mondo?» (Gal 6,14). Lo Spirito di Cristo produce nel cristiano inclinazioni opposte a quelle del mondo fino ad una lotta senza quartiere contro «l’uomo vecchio» (Rom 6,6).
«La carità che tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7), lo spinge al servizio degli altri e non gli risparmia quelle sofferenze che il mondo mette sulle spalle di quanti cercano la giustizia. Fedele al suo Maestro il cristiano susciterà attorno, inevitabilmente, atteggiamenti di ostilità, ma non dovrà temere: «so a chi ho creduto» (2Tm 1,12). È la forza della croce! A salvare non è la sofferenza, ma l’amore.
+ Andrea Turazzi