Arcabas, ciclo sui discepoli di Emmaus. Il pasto 1994
E sono finalmente a tavola. La porta della locanda, che nel pannello precedente vedevamo sullo sfondo, è chiusa. Il calore del focolare acceso si è diffuso in tutta la stanza: c’è tepore e amicizia. Si sta bene qui. Chissà, sono forse questi i pensieri che attraversano i due di Emmaus, appesi alle labbra del loro misterioso Amico, confortati e sorretti dalla sua lectio magistralis. Chissà chi è? Il più anziano, forse Cleopa si porta una mano alla guancia con fare interrogativo. Non è facile carpire allo strano pellegrino il Mistero delle sue origini. Forse gli hanno fatto molte volte la domanda: da dove vieni, chi sei? E certo lui l’aveva elusa infilandosi nelle intricate vie della Scrittura, tutto preso e orientato a chiarire loro chi fosse il Messia. Ma ora che sono qui, insieme, a tavola, con tutta la pregnanza di significato del pasto, ogni domanda è inutile. Sì, l’ombra della croce è ancora presente, proprio lui Cleopa non riesce a dimenticarla: ce l’ha stampata sull’abito; è impressa come un’ombra minacciosa vicino alla tovaglia, purtuttavia è entrata una serenità nuova, una pace, frutto della comunione con quell’uomo.
C’è in tutto questo il segno, l’impronta della benedizione divina, come scrive la Redemptoris Missio al n. 26: “Lo Spirito spinge il gruppo dei credenti a «fare comunità», a essere Chiesa. Uno degli scopi centrali della missione, infatti, è di riunire il popolo nell’ascolto del Vangelo, nella comunione fraterna, nella preghiera e nell’eucaristia. Vivere la «comunione fraterna» (koinonìa) significa avere «un cuor solo e un’anima sola», (At 4,32) instaurando una comunione sotto tutti gli aspetti: umano, spirituale e materiale”.
Il riverbero della Parola con tutti i suoi colori, le sue tonalità, rimbalza ancora sulla tavola. L’altro discepolo, più giovane, ne è totalmente affascinato, preso. Versa, nella pace ma con una certa trepidazione, il vino nella coppa, segno di quella gioia che sta tornando dopo la tempesta portata nel suo cuore dall’evento della croce. Missione e comunione sono due aspetti imprescindibili della vita della Chiesa, non c’è l’uno senza l’altra. Eppure quanto sono difficili entrambe. Oggi che la Missione, prima d’essere nei paesi che non conoscono ancora Cristo, è qui tra di noi; è urgente, dentro al nostro mondo scristianizzato, secolarizzato; ci si domanda quale comunione c’è fra noi? Come potremo evangelizzare nella divisione, nel contrasto, nell’assoluta incapacità di rispettare l’altro nella sua diversità. La promessa di Gesù era stata chiara: vi seguiranno tutti, presi dall’amore che vedranno fra voi. Forse abbiamo sbagliato, dopo il Concilio, a sottolineare troppo l’aspetto della comunione. Se la missione è stata in parte messa in ombra, della comunione si è parlato e si parla ancora senza fine. Si parla. Ma, forse, non si vive. Arcabas ha avuto la geniale idea di mettere i tre pellegrini di Emmaus a tavola con le bocche serrate. Non parlano più come hanno fatto lungo la strada ma ci sono, ci sono con tutto l’ardore del cuore. Sono uno per l’altro. Ora, forse darebbero la vita per quel loro compagno sconosciuto, ma già caro. Che cosa manca a noi per essere così? Per edificare comunità, parrocchie, famiglie, diocesi così? Ci manca l’ombra della croce vestita dell’oro della Parola. Ci manca lo sguardo contemplativo che conservano ora i due seduti a tavola. Forse ci manca anche la preghiera e lo spirito della preghiera che dovrebbe permeare ogni nostro atto. Così ci accorgiamo soltanto adesso di Gesù, estatico, intento a recitare la berakà sul pane. Quella preghiera atavica – che recita ogni ebreo da secoli, ancora oggi – ora sulle sue labbra ha un non so che di nuovo, di intimo.
La coppa di Gesù risplende di luce, l’azzurro della tovaglia inonda il suo abito e il suo volto. Ecco cosa c’era di strano in questo pannello: il volto! Ora lo vediamo! Il Misterioso pellegrino non è una sagoma in contro-luce, un uomo senza volto e fisionomia, ora si mostra e si mostra proprio dentro al gesto semplice, quotidiano, ma intenso, della benedizione sul pane. Tre fiamme tremule raccontano la vita divina che quell’Uomo misterioso ha voluto rivelare con il dono di sé: la Trinità. Una comunione d’amore infinita che vuole attrarre a sé ogni uomo, ognuno che in Cristo si riconosca fratello, figlio del Padre suo. Mi piace pensare che Arcabas nell’alone sghembo delle fiamme del candelabro abbia voluto rappresentare la lettera shin rovesciata, una lettera ebraica che indica movimento: il movimento di una fiamma o dei denti di una ruota, un movimento che dà forza vigore, che porta verso l’alto. Ne siamo risucchiati, anche noi. Se prima del Pellegrino scorgevamo solo lo sguardo, ora quegli occhi serrati, e colmi della benedizione che sta recitando, ci penetrano nell’intimo. La lettera shin è la lettera della pace: shalom, dell’Onnipotente: Shaddai. Ecco cosa ci manca: vivere la comunione come Mistero, vivere la croce come radice ineludibile del frutto della carità e della pace. Non c’è l’una senza le altre. Arcabas si arresta qui. Non ci mostra che «essi lo riconobbero allo spezzare del pane». Ancora una volta la sua narrazione pittorica si ferma, chiede una pausa, questa volta non per aderire al testo evangelico, ma per chiedere a noi dove siamo. C’è uno spazio vuoto davanti a Gesù, forse è il posto per noi. Dove siamo rispetto a questa mensa gravida di Parola? Dove, rispetto a questa preghiera? Dove, a fronte di questa comunione che sola, quale riflesso della Trinità, conduce alla missione?
suor Maria Gloria Riva, marzo 2021