Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia (Luglio-Agosto 2018)

Mosaico della pavimentazione antistante alla Basilica delle Beatitudini nei pressi di Tabgha Galilea, Israele (1938 ca.). Part. dei “Beati i misericordiosi”
Il girale dedicato alla quinta beatitudine, beati i misericordiosi, presenta tre modelli di grande efficacia. Siamo ormai abituati alla scansione ritmica della nostra pavimentazione musiva: una figura del Primo Testamento, una del Nuovo, una terza relativa alla storia della Chiesa. China sul campo e intenta a spigolare è la donna del primo medaglione. Si tratta di Ruth la straniera, moabita, entrata con dignità e grazia nella genealogia di Cristo. Fu, infatti, la bisnonna di Davide. È proprio lei che ci obbliga a chiarire anzi tutto che cosa significa, in seno alla tradizione biblica, la parola misericordia. In ebraico (e in arabo) misericordia, rachamim, è il plurale di rechem, cioè utero e significa letteralmente «uteri». Che parentela c’è tra la misericordia e l’utero? E perché usare un plurale? L’ebraico non ha il superlativo assoluto, ma lo realizza accostando un singolare a un plurale, ne abbiamo un esempio nella bibbia stessa: il Cantico dei Cantici, ovvero il Canticissimo, l’unico canto in grado di cantare l’amore tra Dio e il suo popolo. Dunque Misericordia è rechem rachamim, cioè l’Uterissimo, l’utero degli uteri, l’unico che può dare sempre e solo vita e che non fallisce alcuna gestazione. Rachamim, misericordia, è dunque l’utero divino che genera a una vita che non muore. Forse per questo due dei personaggi di questo grande girale sono femminili. Ruth entra a pieno titolo nel dinamismo divino che persegue i suoi progetti di bene entro vie inusitate. I Moabiti sono pagani, tradizionalmente nemici di Israele. Noemi è una donna ebrea che con il marito vive nelle terre di Moab, è emigrata per lavoro, ma le difficoltà nel vivere tra pagani e l’impossibilità di osservare totalmente la torah, hanno aperto la porta alla tragedia. Muore il marito, Elimelech; muoiono i figli, Maclon e Chilion, ed ella resta con le due nuore moabite. In questo libro, i nomi dei protagonisti sono simbolici ed esprimono il loro destino. Elimelech, significa «Dio è il mio re» (egli era, dunque, chiamato a rendere onore al nome di Dio in terra straniero). I nomi Maclon e Chilion significano rispettivamente «malattia e consunzione», infatti il libro si apre con la lo ro malattia e la loro morte, preceduta dalla morte del padre. Noemi che significa «la dolce», resta sola con le due nuore, una di nome Orpa, che significa letteralmente «Colei che volta le spalle», cioè sleale, e Ruth che invece significa «amica, compagna». Così Noemi, avendo saputo che a Betlemme era cessata la carestia, decide di rientrare in patria, lasciando le due nuore libere di tornare alle loro famiglie. Inaspettatamente però Ruth, a differenza di Orpa che appunto se ne va voltando le spalle alla suocera, decide di seguire Noemi in terra d’Israele. È lei a rilasciare quella formula straordinaria che ancora oggi viene pronunciata da tutti quei non ebrei che si convertono al giudaismo: «Il mio Dio sarà il tuo Dio il tuo popolo sarà il mio». Questo è il primo atto di misericordia, cioè di vita, che Ruth compie. Se era difficile la vita in Israele per una donna straniera e per giunta moabita, lo era ancora di più per una donna ebrea, anziana, vedova senza figli. Perciò Ruth comprende che la sua compagnia potrà salvare la vita a Noemi, la quale, attraverso di lei, avrebbe potuto avere una discendenza. Il nostro mosaico dunque ritrae Ruth intenta a spigolare nel campo di un parente stretto di Noemi, di nome Booz. Sarà lui a sposarla e a generare Obed, padre di Jesse, padre di Davide. Nell’Antico Testamento, dunque, la misericordia passa attraverso la generazione di gente «giusta», membri del popolo santo che possano portare molti alla santità. Doppio onore alle donne di questo racconto biblico: onore a Noemi per aver testimoniato la fede a Ruth e averla conquistata alla verità, ma onore anche a Ruth per il dono della vita fatto alla suocera. Una simile eredità, quella di una discendenza salvifica, cioè di un utero che genera salvezza non poteva che essere raccolta e degnamente portata a maturazione dalla Vergine Maria. Nel secondo medaglione il testimonial dei misericordiosi è proprio la Mater Misericordiae che regge in grembo il divin Figlio. Diversamente dall’iconografia classica della Madonna della Misericordia, altrimenti detta Madonna del manto, la Vergine non ha il mantello aperto a guisa di abside che raccoglie idealmente nel suo grembo il popolo di Dio. Qui siede in trono, vale a dire docet: insegna la Misericordia. In-segna, cioè indica che l’unica vera Misericordia è quella divina, la quale si realizza compiutamente nel dono del Figlio. Dio che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? (Rm 8,32), questa è la grande Misericordia anche secondo l’Apostolo Paolo. Se Dio ci ha dato in Cristo la salvezza eterna e la sua stessa vita divina, come non ci elargirà tutto il resto, cioè le misericordie umane di cui pure l’uomo ha bisogno? Le opere di Misericordia spirituali e corporali trovano qui, nell’Incarnazione e nel Kerigma, radice e compimento. Ecco allora che il terzo protagonista della beatitudine concernente i misericordiosi è uno dei tanti santi che ha generato opere di carità: san Giuseppe da Cottolengo. Uno dei tanti senz’altro, ma proprio perché la scelta poteva essere vastissima (e basterebbe citare i grandi santi Ospedalieri come Giovanni di Dio e Cammillo de Lellis per aprire un elenco infinito) il fatto di aver scelto Il Cottolengo fa pensare. Questo santo, com’è noto, ha raccolto i bambini nati con orribili malformazioni. Bambini dei quali, non di rado, i genitori stessi si vergognano, i veri scartati, quelli che una certa eugenetica moderna sopprimerebbe senza pietà nel grembo materno, considerati indegni di vivere. San Giuseppe li ha raccolti, li ha voluti per sé e per i suoi seguaci, come figli. Una carità che, in una, abbraccia molte opere di misericordia: rivestire di dignità questi esseri umani, dar loro da bere e da mangiare, consolare l’afflizione dei genitori, sopportare le molestie di chi (oggi soprattutto) vorrebbe cancellare la presenza di questi individui… e l’elenco potrebbe continuare. Non sapeva, l’autore del mosaico, quanto profetica sarebbe stata la scelta di questo santo. Nel recente dibattito sull’eutanasia applicata ai bambini, venuto alla ribalta per la questione di Alfie Evans, fa onore la reazione indignata dei figli di Cottolengo di fronte a una legge che obbliga a negare nutrimento a certi casi gravi, per il solo fatto di essere gravi. Contro un mondo, pressoché silenzioso, essi non hanno esitato ad alzare la voce contro certa falsa Misericordia che si arroga il diritto di dichiarare e scegliere chi sia degno di vivere e chi no. Le tre figure, allora, proprio a partire dal dato iconografico, ci aiutano a comprendere che la vera misericordia è la vita: dare una discendenza ai defunti senza figli, perpetuandone la memoria (Ruth); dare la vita a chi è morto a causa del peccato (Cristo e la sua Vergine Madre); ridare vita e dignità agli scartati dal mondo, agli innocenti condannati a morte come fece Giuseppe Cottolengo. Proprio quest’ultimo rappresenta il segno della grande Misericordia di Dio che a noi, condannati a morte a causa del peccato, ha ridato la vita eterna.
Monache dell’Adorazione Eucaristica Pietrarubbia