Beati i miti (Maggio 2018)

Mosaico della pavimentazione antistante alla Basilica delle Beatitudini nei pressi di Tabgha Galilea, Israele. Part. dei miti

Mosè era il più mite fra gli uomini (Nm 12,3). I rabbini si interrogano di fronte a questa affermazione biblica. Leggendo infatti il libro dell’Esodo ci viene piuttosto restituita un’immagine possente di Mosè, che rimprovera il popolo, che si mette talora contro Dio a favore degli israeliti, che rimprovera apertamente Aronne e Maria e fa trangugiare al popolo l’acqua nella quale ha frantumato i residui del vitello d’oro. Insomma, niente di più lontano dalla mitezza, per il sentire comune. Eppure resta lapidaria questa frase biblica a provocarci. Il Midrash scava nel testo biblico e trova la radice della mitezza di Mosè proprio nella consegna che Dio gli fece della Terra. Egli meritò questa consegna a motivo della sua opera di intercessione. Infatti, benché adirato contro gli israeliti, Mosè non esitò a mettersi fra Dio e il popolo, facendosi garante del patto. Così, nella pavimentazione antistante la Basilica delle beatitudini, il girale riguardante la terza beatitudine: beati i miti perché erediteranno la terra, mostra Mosè con le tavole della legge in mano e la terra promessa sullo sfondo. Egli, cui fu data in eredità la terra, non vi poté entrare quasi offrendo a Dio l’ultimo grande sacrificio onde assicurare al popolo la stabilità e la pace. Campeggia dietro di lui la scritta latina di Numeri 12,3: Mosè fu l’uomo più mite della terra. Da tutto ciò emerge un volto nuovo della mitezza, che poco ha a che fare con una passività supina e rassegnata. Una siffatta mitezza fu espressa da Dietrich Bonhoeffer, pastore luterano tedesco decapitato dai nazisti per aver cospirato contro Hitler a difesa degli ebrei. Nel carcere di Berlino egli scrisse lettere nelle quali emerge chiaramente come la mitezza è la virtù dei forti. E invero, proprio guardando Mosè, la mitezza si rivela come la forza di coloro che non per debolezza sospendono la giustizia umana, ma per la consapevolezza che è Dio a condurre la storia. Proprio in tale direzione va l’assegnazione di esempio di mitezza alla figura di Stefano, testimonial (se così si può dire) del Nuovo Testamento. Stefano era uno dei diaconi scelti dagli apostoli per dirimere le contese sorte presso il popolo dei credenti in Cristo Gesù. Luca, autore degli Atti, per descrivere tali contese usa volutamente lo stesso linguaggio letterario della Bibbia greca (detta dei Settanta) negli episodi riguardanti l’esodo e le bramosie del popolo d’Israele (cfr. At 6,1-5). La lite, nella comunità cristiana, sorse fra le vedove ebree e le vedove di origine pagana. Stefano, dal nome greco, che significa appunto Incoronato, doveva assicurare la pace provvedendo alla mensa e alle altre necessità delle vedove cristiane provenienti dai popoli pagani. La sua pietà, la sua parola infuocata e i prodigi operati dalla grazia divina attraverso di lui, indispettirono i giudei della Sinagoga dei liberti. Cioè ebrei provenienti dalla diaspora che, prigionieri dei romani, erano stati poi liberati. Proprio a motivo di Mosè essi gridarono alla bestemmia nei confronti di Stefano. E questi, ignorando le ingiurie e le provocazioni, fece un discorso straordinario che, ancora oggi, è una mirabile sintesi della storia della salvezza, da Abramo a Gesù Cristo passando per Mosè e Davide. Il momento in cui si rivela la mitezza di Stefano è però il martirio. Se Mosè incarna l’immagine del giusto che eredita la terra, promessa dal Signore fin da quaggiù, Stefano rappresenta colui che eredita il Regno dei Cieli a motivo della sua testimonianza in Colui che è il Nuovo Cielo e la Nuova Terra, Cristo. Mentre lo lapidavano disse infatti: «Ecco, io vedo i cieli aperti, e il Figlio dell’uomo in piedi alla destra di Dio» (At 7,56). La sua mitezza trova le radici nell’imitazione di Cristo sulla Croce, anch’egli infatti, prima di morire perdona i suoi carnefici: «Poi, messosi in ginocchio, gridò ad alta voce: “Signore, non imputar loro questo peccato”. E detto questo si addormentò» (At 7,60). È proprio quest’immagine di Stefano morente in ginocchio e la scritta del versetto 60 in latino ad essere raffigurata nel nostro mosaico. Il testimone «mite» nella storia della Chiesa è sant’Ambrogio. Il grande vescovo è rappresentato con uno degli attributi che lo distinguono e cioè le api. Accanto alle api sant’Ambrogio tiene normalmente in mano il flagello. I due elementi fanno riferimento alla parola del santo Vescovo: questa sferzava gli uditori come una frusta, ma nel contempo lasciava negli animi una dolcezza pari al miele. Anche qui fa meraviglia come sia stato identificato quale «mite» un grande difensore della verità che non esitò ad opporsi ai potenti e alle eresie, fu incurante della cattiva fama che questo comportamento gli procurava e non mancò di mettere a rischio la propria vita. Nei confronti di Aussenzio, vescovo ariano che voleva impadronirsi della basilica di Milano, sant’Ambrogio si oppose a viso aperto e scrisse una lettera nota come Contra Auxentium nella quale, citando un passo celebre del Primo Testamento, disse all’usurpatore: «Non cederò la vigna dei miei padri». Qui la terra che il mite eredita è identificata con la Chiesa. Non più una terra geografica promessa a Israele, non solo una terra nuova che ci sarà data alla fine dei tempi, ma anche una terra mistica quella della Chiesa, una terra che idealmente si estende sino ai confini della terra. Ambrogio fu anche un grande protettore dei poveri e di coloro che a causa dei poteri forti venivano oppressi, ma il Signore lo favorì anche di doni singolari come quello, ad esempio, di trovare le reliquie dei martiri sepolte e dimenticate dopo le persecuzioni. Anche queste spoglie dei martiri (Protaso, Gervasio, Nazario e Celso) sono la preziosa eredità della Chiesa: sono la terra bagnata dal sangue della testimonianza. Così Ambrogio ha espresso la mitezza nella forza di correggere e difendere il suo popolo unita a una grande dolcezza nel parlare e nell’esprimere il suo amore per la Chiesa e i suoi membri. Un tale connubio ebbe la forza persuasiva di convertire la mente vivace e critica di Sant’Agostino. L’umanità di Ambrogio ci viene integralmente restituita dalle sue lettere come quella a Felice nella quale, congedandosi, afferma con grande umiltà e semplicità: «Sta sano e amaci, perché anche noi ti vogliamo bene».

suor Maria Gloria Riva