“Dare la parola all’Eucaristia”

Aperto il nuovo anno pastorale della Diocesi

La Diocesi di San Marino-Montefeltro ha inaugurato domenica 24 settembre il nuovo anno pastorale. È accaduto nel contesto di una vasta assemblea di oltre 200 persone che hanno letteralmente gremito la Cattedrale di Pennabilli. Rappresentati in modo qualificato tutti i vicariati, con sacerdoti, diaconi, esponenti della vita consacrata, laici e, tra questi, molti giovani. Dopo le presentazioni è stata offerta una sintesi dei lavori sinodali e una relazione sulla realtà dell’Eucaristia, a cui ha fatto seguito un momento alto di spiritualità: trenta minuti di silenzio davanti al Pane consacrato, l’Eucaristia, posta sull’altare per l’adorazione. A detta di molti è stato il momento più forte e più intenso del pomeriggio: non si è solo parlato di Eucaristia, ma si è data la parola all’Eucaristia: «Nel tuo silenzio accolgo il mistero venuto a vivere dentro di me. Sei tu che vieni, o forse è più vero che tu mi accogli in te, Gesù», sono le parole intonate dal coro.
L’assemblea si è chiusa col “Mandato” agli impegnati nel servizio pastorale. Ma, è stato ribadito, ogni cristiano è “operatore pastorale” e missionario. Sono passati secoli dalle dispute medioevali sull’Eucaristia e tanto tempo dalle obiezioni protestanti; oggi non c’è più la discussione, semmai l’urgenza di una nuova consapevolezza dell’Eucaristia. Una consapevolezza che non potrà essere solo un sapere intellettuale o l’appagamento di un fervore intimistico, ma la presa di coscienza di quanto ricorda il Concilio Vaticano II raccogliendo e sintetizzando le Scritture e la Tradizione: Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Una consapevolezza senza riduzioni, anche se la ristrettezza del tempo e la graduale pedagogia impongono delle scelte fra una ricchezza di temi che si intrecciano tra loro: sacrificio di Cristo che si rinnova sull’altare, banchetto che unisce fratelli, cibo e bevanda per il cammino, annuncio della morte e della risurrezione del Signore nell’attesa della sua venuta. Suggestioni, tesori e luci che inebriano il cuore di chi crede, mobilitano la comunità che celebra, interpellano chi, per ora, sta a guardare.
Quest’anno, dunque, l’Eucaristia sarà il centro della comunità cristiana e proposta per i cammini personali e comunitari. Si dice che sarà il tema dell’anno, meglio dire l’esperienza dell’anno: sperimentare che davvero l’Eucaristia fa la Chiesa. A questo aspetto ha condotto il cammino pastorale degli ultimi anni: dall’annuncio della risurrezione di Gesù al Battesimo che infonde la vita nuova, dall’urgenza missionaria alla forza dello Spirito, dalla comunione ecclesiale all’Eucaristia. Viene rilanciata una provocazione: che posto occupa l’Eucaristia nella vita della comunità cristiana? I presbiteri aiuteranno con la loro fede, con la cura nel celebrare e con l’educazione alla spiritualità eucaristica. Negli incontri e nei gruppi non mancheranno riflessioni e approfondimenti sull’Eucaristia, i suoi effetti e la sua ricaduta sociale. Si vorrebbe uno scatto in avanti di tutta la Diocesi nella conoscenza, nella partecipazione e nell’adorazione del Sacramento.
L’intera Diocesi, nel suo programma annuale, propone “Emmaus”, l’icona dei due discepoli che si allontanano delusi dalla comunità di Gerusalemme e lungo la via incontrano il Risorto che riconosceranno nell’atto dello spezzare il pane. È l’indicazione per il percorso: Diocesi in cammino col Signore Risorto, in ascolto del suo soave rimprovero quando la sorprende incerta e triste. Il Signore le spiega le Scritture e rimane con lei nel dono di un pane spezzato. Scompare dalla sua vista, ma i cuori ardono a motivo dell’incontro. I viandanti verso Emmaus ritornano al cenacolo dove Pietro e gli altri sono uniti e la Madre di Gesù è fra loro. “Emmaus è qui!”: sintesi del cammino per il nuovo anno. È stato ribadito: «L’Eucaristia è presenza del Signore (se davvero ne fossimo persuasi!), è azione del Signore (non è gioiello prezioso chiuso in cassaforte), è sua auto-donazione (ogni volta come la prima volta)».
È interessante la modalità del collegamento fra l’esperienza dell’Eucaristia e il Cammino Sinodale, entrato nella sua seconda fase. Per l’impresa della nuova evangelizzazione non bastano le dichiarazioni di intenti, occorre valutare mezzi, risorse e condizioni di possibilità come fa il costruttore evangelico, prudente e intraprendente (cfr. Lc 14,28-31). Ogni comunità – in primis i Consigli Pastorali – può fare tesoro di un “quaderno pastorale” che offre occasioni di esercizio del discernimento comunitario sullo sfondo dei quattro verbi eucaristici: prendere, benedire, spezzare, dare. Intorno all’Eucaristia fioriscono iniziative di carità, maturano ministeri e servizi, partono cammini di impegno sociale, sbocciano vocazioni e vocazioni al sacerdozio, realtà molto concrete che esigono cura e discernimento. Il Signore poi affida ai presbiteri la più sublime espressione del suo amore, il “suo donarsi”.
Senza presbitero non c’è Eucaristia. Anche le comunità più piccole reclamano almeno l’Eucaristia domenicale. Che fare quando mancano i presbiteri? Occorre mettere in evidenza la bellezza del sacerdozio, una vita interamente donata per il Signore e per gli altri. Che non ci manchino i sacerdoti e ai sacerdoti non manchi la collaborazione e l’affetto dei fedeli!

+ Andrea Turazzi, ottobre 2023

Estate 2023: contraddizioni e speranze

Un’estate che sembrava indugiare. Poi è arrivata infuocata. Poi è parso non andarsene più. «Ma che tempo che fa?»: ormai non più chiacchiera ma occasione di studi, di ricerche scientifiche, incubo per qualcuno. Intanto la macchina per le vacanze si è lanciata a pieno ritmo. La riviera promette bene. L’entroterra si dà da fare, anche se le ferite dell’alluvione e delle frane sono ancora evidenti e tante attività e famiglie sono ancora in attesa degli aiuti promessi. Sull’agenda della politica si aprono nuovi e vecchi capitoli: le manovre di bilancio, il salario minimo, il lavoro, il cuneo fiscale… Ritornano – in contrasto con le immagini vacanziere – le notizie di guerra e di sbarchi: anche nei piccoli centri non ci si può sentire estranei. Quello che accade sulle sponde del Nord Africa e sulle nostre coste ci riguarda e non può non mobilitarci. Continuiamo a dircelo: temi e sfide da affrontare subito, da mettere sull’agenda delle nostre riflessioni, preghiera e impegno: in autunno è già tardi!
In questi mesi estivi non stanno mancando occasioni preziose: convegni, incontri, ricorrenze. Notevole, come ogni anno, per contenuti e presenze il Meeting di Rimini, chiusosi con l’intervento del Presidente Sergio Mattarella sulla Costituzione e i suoi principi di amicizia. L’attualità continua a proporre cronache di abusi, anche di ragazzi ai danni di ragazzine, di violenze nel degrado delle periferie, ma anche in piccoli centri di provincia. Si impone la questione giovanile. Fresco di stampa il Rapporto giovani 2023 sulla condizione giovanile in Italia (a cura dell’Istituto Giuseppe Toniolo – Milano). Il Rapporto indaga su come i giovani vivono e interpretano i cambiamenti in atto e le relative ricadute e preferenze del loro essere e del loro agire nella società. Il Rapporto affronta temi sensibili come la formazione e le nuove competenze, l’idea di famiglia e la propensione ad avere figli, l’impegno sociale, particolarmente in tema di ambiente, il rapporto con le istituzioni. I dati e le analisi evidenziano come agenzie educative, scuole, famiglie tendano a pretendere dai giovani, anziché partire da ciò che i giovani sono e vogliono diventare.
Nel cuore dell’estate ha avuto un forte rilievo la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona. Chi ha seguito l’evento dall’esterno può succedere che lo qualifichi solo come una grande adunata fine a se stessa, con un impiego smisurato di energie, una prova di forza della Chiesa capace ancora di mobilitare un milione e mezzo di giovani. Ma la si può guardare con una certa relatività ed un po’ di apprensione. Da un lato, aggrapparsi stoltamente ai numeri porta alla tentazione di misurare “quanto si è forti”; dall’altro lato c’è tutto il mandato e la responsabilità del prendersi cura dei giovani. A Lisbona sono andati una sessantina di giovani della nostra Diocesi, attraversando mezza Europa. Sono saliti con un’adeguata preparazione, motivati, disponibili alla fatica e aperti all’incontro, sempre pieno di sorprese.
Le parole e i messaggi diretti ai giovani sono stati piuttosto parchi per dare tutto lo spazio ai discorsi di papa Francesco (confermata la popolarità tra i giovani), discorsi distribuiti su un crescendo di speranza e di incoraggiamenti. «Noi giovani – ha scritto un ragazzo – viviamo di grandi opposti: possiamo essere entusiasti sognatori e contemporaneamente pessimisti frustrati; possiamo vivere pronti ad incarnare ideali alti, impegnandoci con gratuità e dedizione e, contemporaneamente, essere abitati dal senso di inadeguatezza e dallo scoraggiamento. Quello di cui abbiamo bisogno – continua il giovane pellegrino – è una Chiesa che tutti i giorni ci aiuti ad abitare i nostri opposti». A Lisbona i giovani hanno trovato non solo entusiasmo, ma anche tanta accoglienza e considerazione. Hanno goduto di ampi spazi di ascolto da parte dei vescovi partecipanti, ai quali hanno consegnato i loro pensieri e i loro interrogativi sulla cura per l’altro e l’intero creato, su fraternità e condivisione, sulla pace e sul perdono come promessa di un futuro possibile. Temi centrali in molti gruppi: la ricerca di una fede più profonda e il rapporto con la comunità cristiana. Il metodo? Quello sinodale: piccoli gruppi, condivisione in un clima di profondo ascolto reciproco e consegna dei frutti del dialogo. Nei giorni della partenza era stata letta la parabola evangelica del tesoro nascosto in un campo. Quale esegesi più vera di quella dei nostri ragazzi? Prendere sul serio quel campo, assumerlo, abitarlo: terreno del quotidiano, tempo della contemporaneità. Ho conosciuto giovani partiti “da turisti” e tornati “diversi”: hanno fatto il cammino, hanno accolto i compagni di viaggio, non si sono sottratti alle fatiche, hanno saputo cantare e fare silenzio. Hanno trovato il Vangelo, senso della vita ed energia di fraternità. Tutto questo è indispensabile per crescere, per guardare lontano, per abitare il presente: perché possa esserci futuro. Chissà quanti educatori hanno avvertito – come me – la necessità di una conversione: non possiamo più organizzare eventi, tracciare cammini, pensare noi al loro posto. È vero, sono graditi e attesi ospiti nelle nostre liturgie, li vorremmo partecipi delle nostre iniziative, rammaricandoci per la loro assenza. Occorre piuttosto far di tutto perché siano non ospiti ma corresponsabili là dove si pensa, si prendono decisioni e si progetta. È questo il modo necessario del prendersi cura: dare fiducia!

+ Andrea Turazzi, settembre 2023

Noi, la gente e i nostri preti

Propongo una riflessione che apparentemente ha poco a che fare con queste giornate di mezza estate, ma che potrà tornare utile alla ripresa del nuovo anno pastorale, quando, tornando dalle ferie, potremmo incontrare cambiamenti di sacerdoti e nuovi assetti pastorali. Potrei intitolare così: noi, la gente e i nostri preti. Credo che il lettore della rivista diocesana “Montefeltro” sia particolarmente attento a quanto succede in Diocesi. Poi, c’è la gente che pratica saltuariamente e prende come un servizio dovuto e scontato quello del prete, salvo poi accorgersi che la sua presenza è sempre meno diffusa. «Ogni campanile… un prete»: un’equazione impossibile. È da un pezzo che le cose stanno diversamente. Una delle conseguenze della secolarizzazione è sicuramente il calo delle vocazioni. Anche il fenomeno dell’urbanizzazione, con l’abbandono delle aree interne, porta ad una diversa distribuzione del clero.
Un tempo poteva accadere che il vescovo assegnasse ad un giovane prete una piccola parrocchia “per farsi le ossa” e col proposito poi di inviarlo ad una parrocchia più impegnativa, per non correre il rischio di intristirlo. Il giovane prete esce dal Seminario con grandi slanci e propositi, immaginando un popolo assetato di Vangelo… Può accadergli quel che succede al giovane attore che sogna di recitare il monologo di Amleto. A questo si prepara con anni di studio, di esercizi e di prove estenuanti (è il sogno di ogni attore di teatro). Poi arriva il sospirato debutto. Può accadere che il sipario si apra su una platea semideserta: dieci, dodici spettatori… Hai un bel da dire che Shakespeare resta sempre Shakespeare, ma il cuore di quel ragazzo avverte il contraccolpo e si raffredda. Si dice che la performance di un attore deve molto al suo pubblico.
Torno al giovane prete inviato in una piccola comunità di montagna, navigatore solitario alla conquista del piccolo gregge. Supponiamo voglia iniziare dai giovani. Ma i giovani dove sono? Se va bene tornano al fine settimana dall’università o dal lavoro in città o sulla riviera. Si presume che il Seminario metta sul campo un “prodotto finito”, cioè un prete con una solida formazione umana e spirituale, con sperimentate qualità di animatore e colto, pronto alle sfide. Inevitabile un primo interrogativo: a chi tocca “fare i preti”? Si dirà che il Seminario dispone di persone dedicate e specializzate a questo compito, un Seminario che ha strumenti, percorsi e verifiche ad hoc. Ma questo sarà sufficiente? Che posto occupa la comunità cristiana in tutto questo? Mi rendo sempre più conto dell’importanza delle comunità per la formazione permanente del presbitero: attenzione, interesse, preghiera. La comunità che è veramente tale è generativa di vocazioni e può contribuire allo sviluppo delle dimensioni vocazionali del prete. Non basta il Seminario, non basta la Facoltà teologica, ci vuole una comunità. Visti i tempi, sono sempre più auspicabili parrocchie che uniscano le forze, valorizzino ministeri, promuovano sinergie pastorali. A favore di questa svolta sta la consapevolezza della grazia battesimale che abilita ogni battezzato a rispondere alla sua personale e insostituibile chiamata alla corresponsabilità. La ricerca di nuovi assetti pastorali – fare unità pastorali, aggregando parrocchie vicine – si pensa possa essere risposta efficace alla scarsità delle vocazioni, ma non è la motivazione principale. La vera novità – ribadisco – è la riscoperta della consacrazione battesimale che fa dire ad ogni cristiano: mia è la Chiesa, mia la comunità in cui vivo. La vita e la missione della comunità dovrà essere sempre più partecipata dai laici. Con tutto ciò, i presbiteri sono insostituibili in ciò che è loro proprio, importanti e “itineranti” assumendo il servizio pastorale in più di una comunità e forse in un’intera vallata. Oggi il servizio pastorale è da intendersi soprattutto come impegno di evangelizzazione e di formazione.
In questo gioco d’insieme è importante “imparare la presenza del sacerdote su diverse parrocchie, superando campanilismi, moderando pretese e soprattutto dando prova di amore fraterno. Un sacerdote che lascia una comunità per servirne un’altra non è ceduto – per usare una metafora calcistica – alla squadra avversaria! Se di squadra vogliamo parlare, la squadra è la Diocesi, Chiesa particolare!
L’unità e la fraternità fra preti è un altro elemento di un nuovo modello di pastorale per il futuro. D’accordo, i sacerdoti diocesani non sono né monaci né religiosi che stanno in convento, ma una certa forma di fraternità può essere una risposta alla situazione.
Vedo nella fraternità sacerdotale anzitutto un “segno dei tempi”, una profezia, una parola da parte di Dio. In una società sempre più individualista, segnata dalle divisioni, dall’arrivismo, ecco uomini che si uniscono per servire, non dico per servire di più, ma per servire sicuramente meglio.
La fraternità sacerdotale fa bene al popolo di Dio. Senza nulla togliere alla sublimità dell’Ordine Sacro, la figura del prete risulterà, in un certo senso, ridimensionata. Perché? Non si va a Messa per simpatia per quel sacerdote o per l’altro, o per altre ragioni troppo umane… si va per il Signore!
La fraternità sacerdotale fa bene ai sacerdoti. La fraternità nulla toglie all’esercizio della paternità, allo spirito di iniziativa, al fruttificare dei talenti, diversi e complementari. La fraternità fa bene perché aiuta i sacerdoti a vivere l’amore reciproco, vincolo di perfezione, molla invincibile per l’evangelizzazione: «Guarda come si amano» (Tertulliano), o per dirla con le parole di Gesù: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).

+ Andrea Turazzi, luglio-agosto 2023

Purché non scenda l’oblio

Dopo i giorni dell’alluvione in terra di Romagna

È uno dei limiti del mensile: scrivi oggi e non sai come domani si evolverà la situazione… Scrivo condizionato dall’onda emotiva causata in queste ore dall’alluvione in Romagna e dal movimento franoso nel Montefeltro. L’onda si placherà e scenderà – Dio non voglia – l’oblio su quanto sta accadendo, sulle vittime, sulle profonde ferite nella gente e nel territorio. Numeri spaventosi per questo angolo di Romagna: 15 morti, 36.000 sfollati, 21 fiumi esondati, 450 strade interrotte, oltre 300 frane. E sono dati provvisori. Il saldo alle prossime settimane. Dietro ai numeri tante persone: persone decedute, case violate, capannoni da ricostruire, piantagioni da reimpostare, comunicazioni da ricucire. Parola d’ordine: “fare presto”; sotto i dardi del sole, pur tanto desiderato, il fango si farà pietra. Ho scritto “ferita” e ferita grave, ma non mortale. Anzitutto per il temperamento di questa gente. I romagnoli se la sono sempre cavata: resistenza tenace, prima ancora del dolore che testimonia l’orgoglio, la forza e la dignità di un popolo. E poi le risorse di questa terra, con germi che in essa continuano a pulsare. Ci vorranno tempo e molto lavoro, ma volontà e braccia non mancano: vita che si interrompe e vita che non si arrende.
Mi sono imbattuto nelle parole del profeta: «Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete”. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti» (Is 35,3-4). Mi è sembrato l’annuncio della prossimità del Dio con noi nella prova, con le sue chiese allagate come le nostre case, con gli slanci dei cuori e con la solidarietà di tante persone e di tanti giovani che si sono messi a disposizione. Appena m’è stato possibile ho telefonato a Marco Angeloni, presidente dell’Azione Cattolica, per sentire in diretta le emozioni di quanti sono scesi con lui a Cesena. Il direttore della Caritas diocesana, Luca Foscoli, ha organizzato spedizioni di tutto ciò che è indispensabile in questa emergenza: stivali, pale, sacchi e… acqua potabile. Il diacono Giovanni Ceccoli, insieme ad un gruppo di Scout, è partito da San Marino con altro materiale. Nella sciagura si svela un mondo spesso invisibile. «Hanno belle facce – scrive Marina Corradi su “Avvenire” – quei ragazzi generosi che spalano fango nelle strade in cambio di niente». Verrebbe da avvertire che dovranno fare i conti con un fango più duro: l’indifferenza e il silenzio. Contiamo su di loro anche per domani.
Quel bimbo ben coperto, salvato dalle acque, stretto tra le braccia di un operatore, rappresenta tutti noi, attoniti e smarriti in questi momenti di prova, e quelle braccia, le braccia di Dio. Un giorno madre Teresa di Calcutta a chi chiedeva che cosa fa Dio per salvare rispondeva: «Dio ha mandato te e me»!
I Vescovi della Romagna stanno facendo sentire la loro prossimità invitando al coraggio e alla preghiera, mettendo a disposizione strutture per gli sfollati. «Impastare il fango con la solidarietà». Si prega per saper vivere da fratelli il momento presente, per chiedere aiuto al Cielo, per allargare gli spazi della carità. La storia, con i suoi avvenimenti, ci fa scoprire pagine di Vangelo. Siamo stati avvertiti della necessità di un rapporto diverso con la natura e con l’ambiente. Cambiamenti climatici ed eventi atmosferici estremi dipendono in parte dai nostri ritardi di comprensione e di responsabilità etica: siamo già in ritardo!
Papa Francesco, nel suo messaggio affidato ai Vescovi della Romagna, ha richiamato la Lettera enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune mettendola in connessione con l’uso sostenibile delle risorse e l’impegno per affrontare la crisi climatica. «C’è tanto bisogno di mettere insieme competenze e creatività. Ce lo ricordano anche le recenti calamità». Ricevuto.

+ Andrea Turazzi, giugno 2023

Quel muoversi che fa Comunione

Una Diocesi senza piazza. Una Cattedrale graziosa come una bomboniera ma non facilmente raggiungibile da tutti. Un territorio su due stati. Un’amministrazione pubblica condivisa da due regioni e due province. Una rete stradale tortuosa e talvolta impervia. Eppure, ce la mettiamo tutta perché la Diocesi di San Marino-Montefeltro viva e sperimenti l’unità. La comunione non è stasi ma movimento, come il cuore che, fermo al suo posto, attrae e invia. C’è un movimento che è dispersione e dissipazione e un movimento che è relazione e incontro. Per la comunione fra tutti è indispensabile che ognuno faccia la sua parte, che ciascuna comunità parrocchiale viva in se stessa l’unità e la porti in dono alla Diocesi, che movimenti, associazioni e gruppi non girino su se stessi e che i centri diocesani siano presenti sul territorio come realtà animatrici e di servizio.
Il Programma Pastorale diocesano ha come obiettivo ricordare a tutti d’essere costruttori di comunità negli ambiti di vita, a partire dai più normali: lavoro, famiglia, studio, parrocchia, relazioni, ecc. Ma non basta: occorre allargare gli spazi della carità, maturare un cuore grande e uno sguardo sempre più attento. In questa tensione verso la comunione trova il suo posto il messaggio vocazionale; “il poliedro delle vocazioni”: molteplicità di chiamate e di risposte: «Va’ oggi a lavorare nella mia vigna» (cfr. Mt 21,28). Sul piano pastorale, una delle più alte forme della carità è l’accompagnamento delle persone nella restituzione a se stesse, alla loro fondamentale destinazione che è la relazione e il servizio. È questo, in fondo, che chiamiamo vocazione. La comunione – l’abbiamo scritto tante volte – è una realtà ontologicamente connessa con la natura stessa della vocazione cristiana. Parimenti lo è la sinodalità (parola riscoperta, ma a rischio di diventare slogan).
«Tutti sul posto, ognuno al proprio posto»: una bella sfida che, paradossalmente, trova le maggiori resistenze su questioni del tutto marginali. Si tratta di costruire una casa, o forse, secondo i suggerimenti di papa Francesco, di allargare i cordoni di una tenda. Nell’Evangelii gaudium ci ha invitato ad avere coraggio e a costruire una comunione dinamica, in movimento. Il paradigma missionario diventa cammino che genera legami. In altro modo si può dire: si fa comunione solo cominciando a muoverci insieme. A questo punto vorrei inserire l’abbozzo di tre riflessioni.
La prima è sul verbo passare inteso anzitutto come disponibilità a fare spazio al nuovo. In questo senso il primo grande nemico è il “si è sempre fatto così”: non si tratta di un altro slogan o di un triste mantra. Passare è anche saper cedere ad altri il proprio incarico, la propria visibilità; passare la mano perché il servizio non finisca per corrompersi come potere o autoreferenzialità (dall’incaricato dei fiori al responsabile degli affari economici, dal capochierichetto al vescovo).  Intendo il verbo passare (un verbo squisitamente pasquale) come trasparenza: “passi” il Signore, non “passino” i nostri punti di vista, le nostre singolarità liturgiche o le nostre rigidità.
La seconda: ciò che vogliamo trasmettere non è una dottrina, ma l’esperienza di un incontro fondamentale che genera una passione. Una passione coinvolge certamente la parte intellettiva, ma anche quella affettiva e spirituale. Una passione così potrà forse configurarsi come un “pensiero incompleto”, ma che tocca la realtà. Dunque, un pensiero meno preciso, ma più reale, più permeabile ai problemi che tutti i giorni ci troviamo ad affrontare, un pensiero fragile e coinvolgente, vulnerabile e vero.
Terza riflessione: muoversi insieme è rischioso, soprattutto in epoche in cui le mete sembrano molto più incerte di un tempo, ma è bello e profondamente umano. Grandi questioni si stagliano di fronte a noi; vanno affrontate con il coinvolgimento di tutti (questioni etiche, mondo economico, politica, emergenza educativa, nuove forme di povertà, ambiente…). L’esperienza del Cammino Sinodale che abbiamo intrapresa (dispiace che qualcuno non si sia lasciato coinvolgere) riveste questo significato: è soprattutto luogo di ascolto e di confronto, perché è indispensabile cercare la verità insieme, anche quando ci spiazza. Qualche volta provo stupore e turbamento nella sproporzione fra i grandi orizzonti e il nostro piccolo cabotaggio, costituito ad esempio dalla Messa d’orario a cento metri da casa, con lo stesso coro e i canti anni ’60, con gli stessi catechisti, con la stessa predica; segnato dalle Messe domenicali stipate dai “genitori del catechismo” di felice inconsapevolezza, dai Consigli dove gli indirizzi pastorali sono le uniche questioni di cui non si discute mai. Absit iniuria verbis! Eppure, si deve continuare nella fedeltà anche alle piccole cose: “grandi orizzonti e piccoli passi”. L’appello ricorrente: «Essere costruttori nei cantieri della comunità» riguarda tutti e tutti da vicino; ci provoca ad uscire dalla nostra confort zone perché la nostra fede torni a generare passione, perché ci renda capaci di rinnovare relazioni e strutture, di offrire una speranza credibile e di essere lieto annuncio.

+ Andrea Turazzi, maggio 2023

È ancora viva la tua gioia?

Vademecum per il Tempo pasquale

Il mondo non lo sa… Eppure, è notizia che lo riguarda da vicino, anzi, lo tocca nell’intimo stesso dell’essere. Di questa notizia il mondo ne ha una qualche percezione nella forma del desiderio e dell’invocazione. Qualcosa hanno intuito i poeti e i profeti: è l’annuncio della Risurrezione. È avvenuta un’esplosione di vita che ha investito Gesù di Nazaret e lo ha collocato nella Gloria-Presenza luminosa dell’Eterno; simultaneamente la stessa esplosione di vita ha investito tutta l’umanità: un fatto, non un sentimento! È un nuovo inizio in cui l’oscurità, il male, è vinto alla radice. «La Risurrezione è un evento dentro la storia – scriveva Joseph Ratzinger nel suo “Gesù di Nazaret” (II volume) – che, tuttavia, infrange l’ambito della storia e va al di là di essa… Avviene un radicale salto di qualità in cui si dischiude una nuova dimensione della vita, dell’essere uomini. La stessa materia viene trasformata in un nuovo genere di realtà. La Risurrezione di Gesù va al di là della storia, ma ha lasciato una sua impronta nella storia. È nel mistero di Dio agire in modo sommesso. È lo stile divino non sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore».
Stupisce che tutto sia accaduto in un attimo, senza spettatori e cronisti se non dopo l’ispezione al sepolcro vuoto e i successivi incontri col Risorto. Eppure – per i suoi effetti dirompenti – è la più decisiva notizia a disposizione dell’umanità, consegnata ad un gruppo di donne e di uomini “plebei illetterati” (At 4,13) e accompagnata da una forza misteriosa. La parola che più di tutte esprime l’accaduto è “grazia”. La “grazia” è Dio che agisce nella storia, il dono che fa di se stesso nella sua sovrana libertà. Siamo soliti declinare la parola “grazia” in vari modi ognuno con una sua pregnanza. Essere toccati dalla grazia: per significare la sorpresa dell’iniziativa divina che fa irruzione – «entra a porte chiuse» – e tuttavia non fa violenza, semmai accarezza. Secondo la grazia di Dio: Dio agisce nell’uomo, ma non senza di lui. Consegna la sua più straordinaria opera – quella della nuova creazione – ai pescatori di Galilea, gente umile e povera, perché risplenda la sua potenza. La grazia è volontà, desiderio e progetto di Dio, ma non sostituisce la parte dell’uomo, che viene chiamato alla corresponsabilità. La grazia è dono: non è una tautologia; l’espressione allude alla stima e alla fiducia di Dio per l’uomo, che colma dei suoi doni. Nel dono è racchiuso in qualche modo il Donatore: è lui stesso che rimane nel dono ricevuto e contamina di luce colui che lo riceve. Tutto è grazia: è facile riconoscere Dio nella benedizione. Ma, prima della Risurrezione, ci fu la croce. Che dire quando la sofferenza bussa alla porta? Un’errata interpretazione potrebbe far pensare che la sofferenza è mandata da Dio. In verità Dio fa del cammino di sofferenza un cammino di vita, perché si fa compagno di strada. La grazia è là quando le forze vengono meno, quando la prova fa vacillare. La grazia vince la morte. Rendere grazie: la grazia innesca un dialogo fra Dio e la sua creatura, suscitando reciprocità. Il dono più grande è saper riconoscere Dio all’opera, il suo amore incondizionato, e avere la possibilità di esprimere gratitudine. I giorni trascorrono veloci. L’eco dell’annuncio pasquale, con la sua carica di gioia, può farsi più flebile. Una domanda per il lettore: è ancora viva la tua gioia? Col tempo dovrebbe stagionare e diventare più gustosa, seppure meno frizzante: una riserva necessaria per questi giorni pericolosi. Il cristiano legge ogni volta con emozione le parole del Vangelo che fissano nel ritmo del tempo gli appuntamenti del Risorto con i suoi: «Otto giorni dopo…». Così per infinite volte, tante domeniche quante ne contiene il calendario, la stessa sorpresa, la stessa grazia, la stessa gioia. C’è chi si è appuntato suggerimenti per conservare la gioia; primo: custodirla e proteggerla perché non svapori nella routine o non se la porti via qualche cattivo maestro; secondo: non perdere la connessione con la sorgente e la radice della gioia; terzo: tenersi legati ben stretti a chi cammina con la stessa gioia.

+ Andrea Turazzi, aprile 2023

“Gente di Pasqua”

In cammino, sulle strade dell’esodo

Suono di campane che riempie le valli del Montefeltro: è Pasqua… Mi sovviene una pagina del Manzoni, dai Promessi Sposi, nella quale egli guarda, con gli occhi dell’Innominato, la gente che accorre verso la chiesa: «[L’Innominato] stette attento e riconobbe uno scampanare a festa lontano; “che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro?”. Al chiarore che andava poco a poco crescendo si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case e s’avviava, tutti dalla stessa parte… tutti col vestito delle feste e con un’alacrità straordinaria». Dalle vallate lombarde alle nostre valli, dove c’è un popolo in movimento, “gente di Pasqua”! Non festeggia “qualcosa” e neppure si mobilita per un giorno segnato in rosso sul calendario, piuttosto è un popolo che, in questo particolare momento, vuole riconsegnarsi a “Qualcuno”. È una volontà espressa in tanti modi, intimi o manifesti, personali o comunitari, con segni che esprimono il fascino dell’antico e la creatività del presente. I riti della Settimana Santa sono per molti un’esperienza forte. A dire il vero la partecipazione della gente è più sbilanciata sulla festa del Natale, con le chiese stracolme per la Messa di Mezzanotte. Eppure, la Pasqua è il centro teologico e temporale della fede cristiana. La Veglia pasquale, in particolare, è il momento più alto e significativo per il cammino della comunità. È la grande notte nella quale ci si connette con la travolgente epica dell’esodo: liberazione dalla schiavitù, passaggio del Mar Rosso, cammino verso la terra promessa, esperienza di un Dio che non sta “sopra”, ma “davanti” ai cammini di liberazione. Nella notte di Pasqua, per i credenti – ma è a beneficio di tutti – si apre un nuovo esodo; si attende il compimento di nuove promesse. Sono i grandi temi della fede e dell’impegno dei cristiani: il Cristo, dopo aver dato la sua vita sulla croce per amore, risorge; entrato nella vita nuova, comunica questa stessa vita a chi lo accoglie. E già suonano le prime note della “sinfonia del nuovo mondo”. L’antico esodo si prolunga nella decisione di chi accetta di “fare il passaggio” ed entra nel programma di Cristo. Le campane di Pasqua, i rami d’ulivo, l’acqua lustrale, sono segni che vengono da lontano, ma chiedono di rivivere in questo preciso momento storico e – perché veri – di parlare ancora.
È davanti agli occhi di tutti la situazione di crisi. Siamo nel momento forse più pericoloso dopo la Seconda Guerra Mondiale. Calza perfettamente il grido del profeta Geremia: «Da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale. Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare» (Gen 14,18). Il cammino dell’esodo ha di questi passaggi difficili. Tuttavia, la marcia inarrestabile avanza sulla via della liberazione. Non è un mito: è storia.
Qualche decennio fa circolava un saggio di sociologia religiosa, autore il gesuita padre Bartolomeo Sorge, che anticipava temi bergogliani. Il libro suonava come uno squillo per risvegliare l’impegno dei cattolici: «Uscire dal tempio». Altri appelli, altri incitamenti si sono ripetuti, fino agli inviti di papa Francesco. La strada che dai sagrati delle nostre chiese si ramifica tra le case segna la direzione della testimonianza, una testimonianza trasparente: la luce deve essere posta sul candelabro perché illumini, non sotto il moggio. Le catacombe non furono mai una strategia dei cristiani; semmai i cristiani vi furono costretti. Altra cosa essere lievito nella pasta e sale che si scioglie per dare sapore. La “gente di Pasqua” – popolo che avanza nel nuovo esodo – non può che mobilitarsi per un’opera di irradiazione. Non in modo generico. Chi ne fa parte ha un posto e un grappolo di vita verso i quali è in debito di speranza. Testimonianza trasparente, ma anche contestuale, perché mai avulsa dalla realtà, e pure proporzionata, perché capace di mediazione.
Chiudo con un’altra citazione manzoniana. Fra Cristoforo è risoluto a chiedere giustizia: «Il mio debole parere sarebbe che non ci fossero né sfide, né portatori, né bastonate». Ecco la replica di uno degli invitati alla tavola di don Rodrigo: «In verità io non so intendere come il padre Cristoforo non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca». Come a dire che certe cose sono vere in chiesa, ma la vita, la politica, gli affari sono altra cosa! Inaccettabile!
La Chiesa che canta l’Alleluia è la Chiesa che sa farsi vicina, che sa parlare, che sa proporsi. Ritornano i tre aggettivi che papa Benedetto XVI lasciò come preziosa eredità ai cristiani di San Marino e del Montefeltro: «presenti, intraprendenti, coerenti».

+ Andrea Turazzi, marzo 2023

La sinodalità ha il volto di una esperienza concreta

In molte comunità se ne assapora il gusto

Di recente è stato pubblicato il documento che sintetizza il Cammino Sinodale di tutte le Diocesi del mondo: “Allarga lo spazio della tua tenda. Documento di lavoro per la Tappa continentale” (http://www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it/cammino-sinodale/). L’ho letto attentamente insieme all’équipe sinodale diocesana: è stato emozionante e sorprendente. Alzando gli occhi dal testo scritto contempli quello che vivono i cristiani sparsi nel mondo: minoranze coraggiose, comunità perseguitate, gruppi in sofferenza; allora nasce spontanea la preghiera che ci fa sentire ancora più fratelli tutti. Ritornano alla mente le parole dei padri che contemplano la Chiesa come un unico corpo: «È nostro quello che si vive nelle Indie». Il Cammino Sinodale appare come una grande esperienza di fraternità, un esercizio di quella “mistica della fraternità” di cui scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium. Ci rendiamo conto, realisticamente, come i cristiani impegnati nel Cammino Sinodale siano una minoranza all’interno delle comunità, ma questo non toglie la significatività dell’esperienza: qualcosa di promettente per il futuro che fa crescere come lievito e come sale che dà sapore.
Pur nella diversità, ritornano idee ed esperienze molto avvertite anche nella nostra Chiesa; affiora un comune modo di stare davanti al mondo di oggi, quasi una concretizzazione di quel programma di vita riassunto nelle prime parole della Gaudium et spes del Concilio Vaticano II: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»(GS 1).
Lo sguardo delle comunità su se stesse sfocia in una presa di coscienza del valore del proprio Battesimo. Il richiamo al Battesimo fa tutti corresponsabili della missione, sostiene l’incontro e il dialogo con la società di oggi e con tutti. Si coglie, nel documento, la consapevolezza che tutti sono destinatari del Vangelo e che pertanto è vivo il desiderio delle comunità di mettersi a servizio ed in ascolto senza pregiudizi. L’ascolto è già missione e annuncio: ascolto non come tattica, ma procedimento che mette l’altro nella condizione di dare il meglio. Si parte da qui per annunciare il volto di un Dio che si prende cura di ognuno fino a donare la sua vita. Torna di frequente nel documento il privilegiare l’incontro con le persone, prima ancora della preoccupazione – pur importante – della dottrina.
Si è fatta esperienza – lo si legge in molti passaggi – che la sinodalità ha smesso di essere un concetto astratto ed ha preso il volto di una esperienza concreta. Così anche in molte delle nostre comunità se ne è assaporato il gusto e c’è il desiderio di proseguire uno stile che è già un modo di essere Chiesa. Ma ci vorrà tempo e ci vorrà molto cammino ancora per andare in profondità. La sensazione è che il Cammino Sinodale sia ancora una esperienza di nicchia. Anche nei nostri ambienti, insieme al coinvolgimento di tanti, c’è passività in molti laici (del resto poco avvezzi ad incontrarsi al di là delle liturgie e a prendere la parola) e ci sono resistenze da parte del clero che non sempre ha assunto il ruolo di animazione e di guida. In molte pagine del documento viene riportato il dolore (spesso è usato il termine “tristezza”) per l’immagine di Chiesa che offriamo, non sempre corrispondente al suo dover essere. Fare un confronto può essere fruttuoso se porta a confidare in Dio e ad allontanare dalle nostre comunità l’autoritarismo, la presunzione di essere i migliori, l’inerzia, le stanchezze, ecc. Condividiamo la convinzione che ogni uomo, anche quello che riteniamo il più chiuso e il più lontano, è sempre in grado di ascoltare una nuova chiamata di Dio ad accogliere la ricchezza dello Spirito. Tutti sono candidati alla comunione.
Affiora una certa tensione che si respira soprattutto nelle Chiese di antica tradizione. Del resto, tensioni e contrasti ci sono sempre stati nella comunità cristiana. Vi sono contrasti che nascono dall’uomo vecchio (per dirla con san Paolo) che ostacola la vita dell’uomo nuovo: gelosie, invidie, desideri di farsi valere, chiacchiericcio, ecc. Ci sono anche contrasti che germinano semplicemente dalle diversità di formazione, di appartenenze, di obiettivi o da incomprensioni e fraintendimenti. Infine, ci sono tensioni che nascono dalla volontà di portare avanti punti di vista o scelte ad esempio nell’ambito liturgico. In alcuni passaggi si allude a tensioni fra progressisti o conservatori. Ma la Chiesa è una sola realtà con dimensione divina-mistica e dimensione umano-storica. In quanto soggetto storico è normale che convivano istanze più conservatrici e istanze più progressiste. In quanto custode del Vangelo la Chiesa si esprime con una polarità vitale: quella tra l’impegno a conservare il deposito della fede e quella di fare di esso il lievito di una vita sempre nuova. È bello lasciarsi coinvolgere e respirare l’universalità della Chiesa. Nello sfogliare le pagine del documento non si può non pensare al coraggio di papa Francesco nell’avviare un processo mondiale di riflessione e di riforma. È come se nella casa, che è la Chiesa, siano state spalancate porte e finestre per far entrare aria nuova e fresca. Qualcuno – è giusto riferirlo – vede in questo il pericolo di una possibile confusione; non si tratta di immaginare un’altra Chiesa, ma una Chiesa diversa.

+ Andrea Turazzi, febbraio 2023

Vi racconto come penso il 2023

Meditazione per l’inizio del nuovo anno

Confesso che i miei desideri per il nuovo anno sono abbastanza scontati. Formulo tre auguri: salute, gioia, pace. «La salute soprattutto!»: è il ritornello delle persone della mia età. È davvero un regalo potersi muovere, essere autonomi, avere relazioni senza ostacoli, vivere al cento per cento e dare il meglio di sé. E poi la gioia. Ha il potere di illuminare. Colora i giorni e dona slancio per vivere il quotidiano. «Toh! Sotto il grigio l’arcobaleno»: era il titolo di un quaderno di spiritualità (istruzioni per affrontare le fatiche e… la noia). Infine, la pace. La pace nel mondo, la pace fra i fratelli, la pace nei cuori: indispensabile per continuare a sperare. Con tutto questo non posso nascondere una certa apprensione per l’anno appena iniziato. Ormai, da tre anni, l’attualità ci sta abituando a vivere smarriti e spaventati. Stiamo tutti nell’incertezza del domani, sospesi per l’insidia di un virus invisibile e aggressivo e ora trafitti da una guerra così vicina. È ragionevole immaginare un anno tranquillo? Eppure è quello che desideriamo, chiediamo ardentemente nella preghiera e ci auguriamo l’un l’altro. Tuttavia la risposta che viene dal Cristo non è del tutto esente da inquietudine. Gesù stesso – il principe della pace – «non ha dove posare il capo» (Mt 8,20): la pace di Cristo non è un tranquillante. Il suo messaggio lancia delle sfide e propone – per il nostro bene – mete impegnative. Ci chiede di stare nel mondo col rischio di essere messi in discussione dagli avvenimenti e dall’incontro con l’altro. Sì, la pace di Cristo porta una certa inquietudine, ma è aperta ai varchi della grazia. Alla fine, la prima cosa che chiedo è il dono di saper vivere “sospeso” e aperto al futuro.
«Vanità delle vanità, tutto è vanità» (Qo 1,1): niente di più efficace per ridimensionare certe ingenuità. Dico: “anno nuovo” e Qoelet, un saggio dell’Antico Testamento, replica: «Ciò che è stato sarà, e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Qo 1,9). Stesse promesse, ogni anno, con lo stesso epilogo. Capita a tutti di ritrovarsi più disillusi e più vecchi. C’è chi ha concluso con l’adattarsi alla coscienza dell’eterno ritorno, acconsentendo deliberatamente alla ripetizione degli eventi nella vita. Si dice: «Meglio scegliere che subire». Cioè rassegnarsi. La ripetizione è piuttosto noiosa, non ha nulla di appassionante.
Preferisco pensare che la vita sulla terra non sia un disco rotto. Nonostante l’età riconosco di aver vissuto ben poco. Paradossalmente non sono che all’inizio, tanto è vasto e coinvolgente l’orizzonte. Ma anche se pare restringersi è solo per un momento. La Provvidenza, con le sue “adorabili imboscate”, riserva sorprese, mi insegna l’umiltà, mi dispone alla vera gioia, mi smuove da me stesso e mi libera, a dispetto di una rassegnata quiescenza.
Salute, gioia e pace non sono pacchi regalo che trovo sotto l’albero, ma sono frutti che maturano giorno dopo giorno, dando un senso al mio vivere, al mio lavorare, al mio tessere relazioni. Sì, anche la salute può essere un frutto buono se saprò affrontare le fragilità. La gioia mi verrà incontro se saprò continuare a donarmi (“c’è più gioia nel dare che nel ricevere” – At 20,35). E la pace comincerà quando costruirò rapporti di verità e di amicizia.
“Anno nuovo” per me è uno spiare amorevolmente l’incredibile novità che mi è offerta. Ogni mattino è l’alba di nuovi incontri, nuove scoperte e cambiamenti: invito ad una nuova nascita. Riascolto la parola che viene dall’Apocalisse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). È la chiave di un vero “anno nuovo”. Lo auguro a tutti!

+ Andrea Turazzi, gennaio 2023

Il bambino ci prende per mano

Ci ridà il coraggio di rinascere e di riprogettare il futuro

Se non fosse per i bambini… lascerei volentieri gli addobbi natalizi nella cassapanca. Stiamo arrivando alla festa più sentita nel mondo in condizioni critiche. Le guerre – non solo quella nel cuore dell’Europa, ma anche le dimenticate dell’Africa e del vicino Oriente – ci stanno presentando un conto salatissimo con i lutti, le devastazioni, gli odi e ogni altra forma di brutalità. Ne risentono non solo le economie statali e familiari, ma le relazioni interpersonali e politiche. A ciò si aggiunga la sofferenza e i distacchi che ognuno ha dentro di sé. Menomale che ci sono i bambini! Ci costringono ad uscire dai nostri incubi. Sono loro che ci prendono per mano e ci rimettono tra le braccia del Mistero. All’inizio, probabilmente, la nostra potrebbe essere solo accondiscendenza o cortesia, poi siamo ricondotti, a nostra volta, all’infanzia che è in noi. Intendiamoci, non all’infantilismo o all’ingenuità, ma al coraggio di rinascere, di riprogettare il futuro. I bambini non sono appena la speranza del domani, ma sono oggi una profezia e la prima delle risorse. Per questo abbiamo “vegliato” sulla vita nascente dedicando una serata intera alla preghiera, alla riflessione e alla festa, presenti un gruppo di mamme in dolce attesa, in nome di tante altre, insieme ai futuri papà. Per questo – ma sono passate ormai diverse settimane – abbiamo voluto ricordare e chiedere perdono alle giovani vittime degli abusi e rilanciare una cultura del rispetto (pueris debetur maxima reverentia). Ho ricevuto una testimonianza. Ad un giovane insegnante di sostegno è stato affidato un ragazzino autistico; il ragazzino non guarda negli occhi, non stabilisce alcun contatto, non parla. Durante una gita organizzata dalla scuola il giovane insegnante e il ragazzino, ad un certo punto, si siedono lungo un corso d’acqua approfittando del clima ancora mite. Improvvisamente il bambino esce con una domanda: «Mi puoi dire chi è Gesù?». L’insegnante – non credente – s’è chiesto cosa passasse per la testa del suo piccolo amico. Lì per lì non si è preoccupato di rispondere o di chiarire. A fine giornata, sulla strada del ritorno, si è sentito rivolgere ancora la domanda: «Dai, dimmi chi è Gesù», guardandolo sorprendentemente negli occhi e poi abbracciandolo forte forte. L’insegnante è tornato sconvolto per l’accaduto: un fatto del tutto inatteso in una persona autistica. È stato come ricevere un regalo. Ma ci sono voluti mesi per comprendere che il bambino autistico aveva risposto lui perfettamente alla sua stessa domanda: nella forza del suo abbraccio aveva mostrato chi è Gesù. Sono certo che, prima o poi, anche sul cammino di ogni persona Gesù si manifesti. Ma spesso gli occhi restano ciechi e il cuore freddo. In questo tempo di Natale stiamo all’erta, potremmo riconoscere Gesù quando si manifesterà attraverso i più umili e i più piccoli. Secondo la liturgia cristiana ci sono quattro settimane di preparazione alla notte che può cambiare tutto. Ecco l’Avvento. Si avvicina il tempo del solstizio a partire dal quale la luce vince le tenebre. La notte del miracolo non è lontana. Miracolo è questa nascita inaudita. In questa notte Dio viene ad incontrarci. Piccolo, fragile, vulnerabile, si fa uno di noi. «A che serve che il Cristo sia nato allora in una stalla se non nasce oggi nel tuo cuore?». È la domanda che, sette secoli fa, faceva maestro Eckhart, ma che ritornano persino nelle canzoni di Natale. A Natale non celebriamo un semplice anniversario, ma una speranza: Dio è presente in ogni istante del nostro mondo, al nostro fianco, in noi. Questa speranza ridona coraggio, riscalda il cuore, rinnova le forze, apre orizzonti e accende la gioia. Buon Natale!

+ Andrea Turazzi, dicembre 2022