L’Eucaristia, fonte e culmine

“Spinge i fedeli a vivere in perfetta unione”

L’Eucaristia, “fonte e culmine”, invita a polarizzare l’attenzione formativa e partecipativa di tutta la nostra Diocesi in quest’anno pastorale. In un certo senso è culmine del percorso diocesano che, dal 2018 ci guida in una rivisitazione dell’Iniziazione Cristiana in rapporto al mistero pasquale, in tre bienni. Nello stesso tempo l’Eucaristia rappresenta la fonte che ci immerge in quello stesso mistero pasquale che, dall’alba del primo giorno dopo il sabato, ci proietta continuamente verso la domenica senza tramonto. In tal senso, essa fa scaturire tutta la linfa di cui ha bisogno il nostro “essere collocati nella storia umana” per annunciare, celebrare e testimoniare Colui che è il Compimento della storia!
L’espressione fonte e culmine appare nella Sacrosanctum Concilium 10 dove, dopo avere osservato che la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa (cf. n. 9), la Costituzione conciliare sulla liturgia afferma che “Nondimeno la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (SC 10). In effetti, esplicita lo stesso numero 10, “il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei sacramenti pasquali, a vivere in perfetta unione; prega affinché esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede… Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”.
L’essere “fonte e culmine”, dunque, caratterizza tutta la liturgia e in modo particolare l’Eucaristia. Lumen Gentium 11, presentando il sacerdozio comune esercitato nei sacramenti, afferma che “partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, [i fedeli] offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa così tutti, sia con l’offerta che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica…, ciascuno a modo suo” (LG 11).
Si può allora intuire il valore unico dell’Eucaristia, la sua importanza fondamentale e il suo posto centrale nella vita della Chiesa e di ogni singolo cristiano/a: “Senza la domenica (giorno dell’Eucaristia) non possiamo (vivere)” (Martiri di Abbitene). Si può capire l’appello pressante di Papa Francesco nella sua lettera Desiderio desideravi circa la “necessità di una formazione liturgica continua di tutto il popolo di Dio, per “recuperare la capacità di vivere in pienezza la liturgia” (DD 27). Nella liturgia è coinvolta pienamente la nostra vita perché la conoscenza del mistero di Cristo non è una semplice acquisizione mentale, ma «un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona» (DD 41). Partecipare alla liturgia, quindi, non riguarda solo la sfera intellettuale, non è un gesto devozionale, ma è esperienza concreta e profonda di incontro con Cristo (cf. DD 41).
Di conseguenza, tutti siamo chiamati ad acquisire l’ars celebrandi (DD 48-65). “… Siamo portati a pensare che riguardi solo i ministri ordinati che svolgono il servizio della presidenza. In realtà è un atteggiamento che tutti i battezzati sono chiamati a vivere… Ogni gesto e ogni parola della celebrazione espresso con “arte” forma la personalità cristiana del singolo e della comunità”.
Ciò richiede a ciascuno di noi di disporsi con generosità ad accogliere e cogliere le tante occasioni di formazione liturgica che la Diocesi offre. E, se necessario, resettando le nostre posizioni ideologiche, le nostre presunzioni di conoscere tutto e di celebrare bene come l’abbiamo sempre fatto finora, e perfino di essere noi nella verità rispetto all’insegnamento del Concilio e del magistero della Chiesa! Aprirci umilmente a quanto lo Spirito va dicendo alla Chiesa oggi attraverso la liturgia che il Messale Romano di Paolo VI ci offre!

don Raymond Nkindji Samuangala, ottobre 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

Canto allo scambio della pace?

Il Messale Romano non lo prevede

Domanda: Si può eseguire un canto durante lo scambio della pace a Messa? (Lorenzo)

La risposta a questa domanda esige primariamente il recupero del vero significato del gesto stesso. Il Messale invita a scambiarsi il “dono” della pace, proprio per sottolineare che questa pace non è una nostra iniziativa di saluto o di riconciliazione, ma è appunto il dono che il Risorto continua ancora oggi ad offrire alla sua Chiesa riunita per la celebrazione dell’Eucaristia. È il “bacio pasquale” di Cristo risorto presente sull’altare, da testimoniare poi nella vita di tutti i giorni. È con questo significato teologico che la tradizione liturgica romana ha collocato lo scambio della pace prima della Comunione, mentre altre famiglie liturgiche, come quella ambrosiana, lo collocano prima di presentare i doni all’altare, in riferimento a Matteo 5,23.
Attorno a questo segno era sorto un dibattito nella Chiesa tra quanti lo sostenevano ed altri che ne chiedevano perfino la soppressione in quanto ritenuto elemento disturbatore del successivo momento della Comunione. Ragione per cui Papa Benedetto XVI aveva affidato alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti il compito di “studiare la possibilità di collocare lo scambio della pace in altro momento, ad esempio prima della presentazione dei doni all’altare” (Sacramentum caritatis, Nota 150). Già i Padri sinodali si erano espressi sia per mantenere il gesto nella sua collocazione tradizionale nel rito romano, sia sulla “opportunità di moderare questo gesto, che può assumere espressioni eccessive, suscitando qualche confusione nell’assemblea proprio prima della Comunione” (Sacramentum caritatis, n. 49).
Dopo un’ulteriore e approfondita riflessione, la Congregazione è arrivata a questa conclusione: “si è ritenuto conveniente conservare nella liturgia romana il rito della pace nel suo posto tradizionale e non introdurre cambiamenti strutturali nel Messale Romano” (Lettera Circolare L’espressione rituale dello scambio del dono della pace nella Messa, 7 giugno 2014). In questa Circolare si offrono, tra l’altro, alcune disposizioni pratiche sul gesto dello scambio della pace:
1) … in determinate occasioni, si può omettere e talora deve essere omesso.
2) Ad ogni modo, sarà necessario che nel momento dello scambio della pace si evitino definitivamente alcuni abusi come:
– l’introduzione di un “canto per la pace”, inesistente nel Rito romano. Nel Rito romano non è tradizionalmente previsto un canto per la pace perché si prevede un tempo brevissimo per scambiare la pace solo a coloro che sono più vicini. Il canto per la pace suggerisce, invece, un tempo molto più ampio per lo scambio della pace (Nota 9);
– lo spostamento dei fedeli dal loro posto per scambiarsi il segno della pace tra loro. “Conviene che ciascuno dia la pace soltanto a coloro che gli stanno più vicino, in modo sobrio” (OGMR 82);
– l’allontanamento del sacerdote dall’altare per dare la pace a qualche fedele;
– che in alcune circostanze, come la solennità di Pasqua e di Natale, o durante le celebrazioni rituali, come il Battesimo, la Prima Comunione, la Confermazione, il Matrimonio, le sacre Ordinazioni, le Professioni religiose e le Esequie, lo scambio della pace sia occasione per esprimere congratulazioni, auguri o condoglianze tra i presenti.
Come si può notare, il canto allo scambio del dono della pace viene annoverato tra gli “abusi” da evitare, in quanto da sempre non previsto dal Messale Romano per un gesto che, di per sé, è breve e sobrio.

don Raymond Nkindji Samuangala, luglio-agosto 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

La Veglia Pasquale e il precetto

Momento irrinunciabile per un cristiano

Domanda: Perché la Veglia Pasquale non è di precetto pur essendo il momento liturgico più centrale e importante dell’anno? (Paola)

Nel motivare il precetto ecclesiale della domenica Papa san Giovanni Paolo II scrive che “Quest’obbligo di coscienza, fondato in una esigenza interiore che i cristiani dei primi secoli sentivano con tanta forza, la Chiesa non ha cessato di affermarlo, anche se dapprima non ha ritenuto necessario prescriverlo. Solo più tardi, davanti alla tiepidezza o alla negligenza di alcuni, ha dovuto esplicitare il dovere di partecipare alla Messa domenicale…” (Dies Domini, 47).
Il motivo di questo “obbligo di coscienza” si comprende se si considera la rilevanza che la domenica ha per la vita cristiana: è il “Giorno del Signore” risorto (Dies Domini); giorno della nuova creazione; l’ottavo giorno, figura dell’eternità; giorno di Cristo luce; giorno del dono dello Spirito Santo; giorno della fede; giorno della Chiesa; giorno della speranza; giorno della festa (eucaristia); giorno della missione; giorno dell’uomo (dies hominis) in quanto giorno di gioia, riposo e solidarietà. Insomma, la domenica è il giorno dei giorni (dies dierum, cf. nn. 74-80). Un giorno irrinunciabile!
“Si comprende allora perché, anche nel contesto delle difficoltà del nostro tempo, l’identità di questo giorno debba essere salvaguardata e soprattutto profondamente vissuta” (Dies Domini, 30).
Quanto viene affermato dal santo Papa circa la domenica lo è ancora di più della Veglia Pasquale. Infatti, essa viene definita «la madre di tutte le sante veglie» (Cerimoniale dei Vescovi, 332)nella quale la Chiesa aspetta vegliando la risurrezione del Signore, ela celebra con i sacramenti della iniziazione cristiana o la rinnovazione delle promesse battesimali. È la celebrazione “la più importantee la più nobile di tutte le solennità dell’anno liturgico” (CdV, 334; cf. anche MR) e “la Messa della veglia è la Messa pasquale della domenica di risurrezione” (CdV, 335).
“La Messa della Veglia, anche se si celebra prima della mezzanotte, è la Messa pasquale della domenica di Risurrezione” (MR). È dunque una notte unica durante la quale, “dopo il lucernario e il preconio pasquale (che costituiscono la prima parte di questa Veglia), la santa Chiesa medita le meraviglie che il Signore Dio fece fin dall’inizio per il suo popolo, confidando nella sua parola e nella sua promessa (seconda parte o Liturgia della Parola), fino al momento in cui, avvicinandosi il giorno della risurrezione, con i nuovi membri rigenerati nel Battesimo [oppure con la rinnovazione delle promesse battesimali di chi è già rigenerato] (terza parte), viene invitata alla mensa che il Signore ha preparato per il suo popolo, memoriale della sua morte e risurrezione, finché egli venga (quarta parte)” (MR).
Più precetto di così! Ogni cristiano, che ha capito e che è consapevole della necessità di vivere pienamente la propria fede non avrebbe bisogno che venisse prescritto ufficialmente il precetto della Veglia Pasquale per sentirne “l’obbligo di coscienza” partecipativo. Parafrasando san Giovanni Paolo II si può dire che difronte a quanto precede, “anche nel contesto delle difficoltà del nostro tempo, della tiepidezza o della negligenza” di molti, l’identità di questa notte debba essere non solo salvaguardata ma soprattutto profondamente vissuta da ogni battezzato.

don Raymond Nkindji Samuangala, giugno 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

La Messa Vespertina del sabato

“Senza la domenica non possiamo vivere”

Domanda: È lecito partecipare alla Messa prefestiva anziché a quella festiva per comodità e non per necessità? (Luisa)

Questa domanda ci permette di tornare alle antiche tradizioni vespertine nella Chiesa, che riprendono l’uso giudaico di iniziare il giorno dal tramonto del giorno precedente (cfr. Levitico 23,32). Alla fine del racconto della Passione i quattro Evangelisti testimoniano che ormai si stanno accendendo le prime luci del sabato al termine di quella vigilia (Parasceve) della Pasqua quando il Signore fu sepolto. La Chiesa accolse questa norma ebraica legandola ovviamente alla domenica, per cui il concilio di Laodicea (sec. IV) sancirà di osservare la domenica dal vespro del sabato a quello della domenica. Da allora, la comunità cristiana dei primi secoli ha celebrato i giorni delle solennità e delle domeniche a partire dalla sera precedente, con i «Primi Vespri», ossia la preghiera liturgica collegata al tramonto del giorno prima. Nel 1953 Papa Pio XII ha istituito al sabato pomeriggio la possibilità di celebrare oltre ai Primi Vespri, anche la liturgia eucaristica domenicale. Ulteriori disposizioni sono state date dallo stesso Pontefice nel 1957. Il motivo principale è stato di offrire maggiore disponibilità di tempo per adempiere al precetto festivo e poter celebrare il giorno del Signore. Il 16 giugno 1972, avvalendosi della facoltà concessa da Papa Paolo VI nel 1967, i vescovi italiani, tenendo presente la tradizione liturgica delle Messe vigiliari già esistenti, stabilivano che si potesse anticipare la Messa domenicale e festiva al giorno precedente. Si raccomandava però di non far ricorso a tale celebrazione se non in caso di effettiva opportunità pastorale. Si veniva incontro così a quelle persone che per seri motivi familiari o professionali erano impossibilitate a partecipare alla Messa domenicale. Pertanto, la celebrazione eucaristica vespertina del sabato o della sera prima di una solennità, chiamata erroneamente “prefestiva”, è a tutti gli effetti la Messa festiva della domenica, con stesse letture e stessi testi delle orazioni. Purtroppo, però, i “seri motivi”, le “ragioni determinanti” alla base di questa autorizzazione si sono talmente banalizzate al punto di ridursi alla “comodità” di cui ha parlato la nostra lettrice. Ormai è una evidenza che la nostra società ha perso progressivamente il senso della domenica come festa comunitaria che, per il cristiano, ha al centro la celebrazione dell’Eucaristia, momento forte di incontro con il Risorto e con i fratelli. Spesso invece la Messa domenicale viene percepita come un gravoso dovere da assolvere in fretta e preferibilmente il sabato pomeriggio per dedicare poi la domenica al tempo libero individuale o al più familiare.
Forse è arrivato il momento di aprire un dibattito a livello diocesano per sensibilizzare tutti alla riscoperta del significato del “giorno del Signore” nonché della dimensione comunitaria della celebrazione eucaristica domenicale. E ricuperare la consapevolezza che “senza la domenica non possiamo vivere”, come testimoniano i 49 martiri di Abitene, i quali, per non rinunciare alla celebrazione eucaristica domenicale, pagarono con la vita la loro scelta. In tal modo, si vivrebbe la celebrazione eucaristica non “per comodità” ma quale necessità reale di vita. E, infine, riscoprire la bellezza dell’Assemblea che si riunisce per celebrare insieme la Pasqua domenicale, è fondamentale per formare cristiani maturi nella fede.

don Raymond Nkindji Samuangala, maggio 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

I Lezionari e i loro cicli

Una ricchezza tutta da vivere

Domanda: Che cosa rappresentano i tre cicli dell’anno liturgico e come fare per sapere se siamo nell’anno A, B o C? Le celebrazioni feriali, invece, quale ordine seguono? (Luigi)

La Dei Verbum, la Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Rivelazione Divina, esprime tutta l’importanza della Parola di Dio rimarcando che “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo” (DV, 21). D’altra parte, il Concilio esorta con ardore sia i sacerdoti, i religiosi che tutti i fedeli “ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture” (DV, 25), giacché «L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo). Riguardo la liturgia, la Sacrosanctum Concilium ha sottolineato che “Nella celebrazione liturgica la sacra Scrittura ha una importanza estrema. Da essa, infatti, si attingono le letture che vengono poi spiegate nell’omelia e i salmi che si cantano; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le orazioni e i carmi liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i simboli liturgici” (SC, 24). Per questo motivo, il Concilio prescrive che “Nelle sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta” (SC, 35). La riforma del lezionario si è basata su queste norme conciliari. In estrema sintesi, si può dire che la struttura e l’organizzazione del lezionario attuale hanno voluto aprire grandemente ai fedeli le porte dei tesori scritturistici distribuendo su 3 anni (A, B, C) le letture domenicali e festive e su 2 anni (dispari e pari) quelle feriali. Mentre le Messe domenicali e festive hanno tre letture (la prima, la seconda e il vangelo) più il salmo, ogni Messa feriale presenta due letture: la prima, tratta dall’Antico Testamento o dall’Apostolo (Epistole o Apocalisse e nel Tempo di Pasqua dagli Atti degli Apostoli), la seconda dal Vangelo.
Per la Quaresima il ciclo di letture è stato redatto in base alle caratteristiche battesimale e penitenziale proprie di questo tempo. Per le ferie di Avvento, del Tempo di Natale e di quello di Pasqua, il ciclo è ugualmente annuale; le letture pertanto sono ogni anno le stesse. Per le ferie delle 34 settimane del Tempo Ordinario, le letture del Vangelo son disposte in ciclo unico, che viene ripreso ogni anno. La prima lettura invece, in due cicli, si riprende ad anni alterni: il primo ciclo per gli anni dispari, il secondo per gli anni pari (cf. Principi generali per la celebrazione liturgica della Parola di Dio, 69).
Va considerato che il lezionario per le celebrazioni dei santi, il lezionario per le messe rituali, per varie necessità, votive e dei defunti, hanno delle serie di letture proprie a scelta e appropriate alle varie tematiche delle celebrazioni. Per conoscere l’Anno di riferimento per l’utilizzo dei vari lezionari occorre consultare il Calendario Direttorio liturgico. Con questa organizzazione del Lezionario, alla fine del triennio avremmo praticamente letto in modo semicontinuo, meditato e pregato quasi tutta la Bibbia. Inoltre, la riforma conciliare del Lezionario rappresenta un segno di unità della Chiesa in quanto per le stesse celebrazioni si proclamano medesime letture in tutte le comunità cristiane sparse nel mondo.

don Raymond Nkindji Samuangala, aprile 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

Canto mariano alla fine della messa

Non prescritto ma consuetudine diffusa

Domanda: Al termine della celebrazione eucaristica spesso si effettua un canto alla Madonna: è obbligatorio o consigliato? Perché? (Luigi)

L’importanza del canto sacro nella celebrazione eucaristica è un dato certo (cf. SC 112). Così come lo è la norma liturgica di iniziare normalmente la Messa con un canto, detto appunto iniziale o d’ingresso la cui funzione “è quella di dare inizio alla celebrazione, favorire l’unione dei fedeli riuniti, introdurre il loro spirito nel mistero del tempo liturgico o della festività, e accompagnare la processione del sacerdote e dei ministri” (OGMR 47).
Alla conclusione della celebrazione, invece, non viene prescritto nessun canto. Infatti, i “Riti di conclusione” prevedono brevi avvisi…; il saluto e la benedizione del sacerdote…; il congedo del popolo da parte del diacono o del sacerdote, “perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio”; il bacio dell’altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l’inchino profondo all’altare da parte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri (OGMR 90, 168, 169). Stando a queste norme, non si dovrebbe eseguire al termine della celebrazione eucaristica né un canto mariano né un qualsiasi altro canto. Tuttavia, è una consuetudine ormai diffusa in molti posti che si esegua un canto alla fine della celebrazione. Considerando che motivazioni sfavorevoli o contrarie ad un canto finale non ce ne sono, rimane il fatto che è comunque un controsenso congedare l’assemblea, invitandola ad “andare in pace” per tornare alle proprie “opere di bene lodando e benedicendo Dio”, e nello stesso tempo suggerire di fermarsi per eseguire un canto. Per tale motivo, qualcuno propende semplicemente per l’eliminazione del “canto finale”. Altri, invece, propongono tre possibili soluzioni: affidare la chiusura della celebrazione solo al coro, che eseguirebbe un brano adatto; oppure, dopo la benedizione e prima del congedo, invitare al canto l’assemblea; oppure, l’organista esegue un brano d’organo conveniente e brillante che accompagna l’uscita dei fedeli, dando così un tocco di festa in più.
Nel caso in cui si mantiene un canto finale, eseguire costantemente un canto alla Madonna al termine della celebrazione non rappresenta una soluzione ottimale. Tale canto è ammissibile solo nelle Messe celebrate in onore di Maria o nella ricorrenza di una memoria, festa o solennità a Lei dedicata. Nelle altre celebrazioni eucaristiche si potrebbe utilizzare qualche volta il Magnificat come canto di ringraziamento alla comunione: è adatto per contenuto e forma.
Una cosa è la devozione alla Madonna, un’altra è la celebrazione liturgica, che è normativa. Anche perché la memoria della Madonna è già integrata armoniosamente nel rito stesso della Messa, nel rispetto delle regole interne alla liturgia. Infatti, la supplichiamo nell’atto penitenziale, insieme agli angeli, ai santi e a tutti i fratelli e sorelle riuniti con noi, affinché preghi per noi il Signore nostro Dio. Nelle intercessioni di tutte le preghiere eucaristiche esprimiamo il nostro anelito a “prendere parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio…”.

don Raymond Nkindji Samuangala, marzo 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

Il linguaggio dei segni

I gesti del celebrante alla preghiera eucaristica

Domanda: Premetto che vado spesso a Messa in diversi posti. La mia domanda è questa: se tutti i gesti hanno un significato durante la Messa perché allora voi sacerdoti alzate in modi diversi l’ostia e il vino dopo averli benedetti? È un gesto libero oppure ha un significato preciso? (Anna)

In ogni celebrazione anche i gesti del celebrante rientrano nell’insieme del linguaggio liturgico e sono portatori di un preciso significato. Per questo, “I gesti e l’atteggiamento del corpo sia del sacerdote, del diacono e dei ministri, sia del popolo devono tendere a far sì che tutta la celebrazione risplenda per decoro e per nobile semplicità, che si colga il vero e pieno significato delle sue diverse parti e si favorisca la partecipazione di tutti. Si dovrà prestare attenzione affinché le norme, stabilite da questo Ordinamento generale e dalla prassi secolare del Rito romano, contribuiscano al bene spirituale comune del popolo di Dio, più che al gusto personale o all’arbitrio” (OGMR, 42). Il gesto di cui parla la nostra lettrice fa parte di un insieme di tre gesti che il celebrante compie durante la preghiera eucaristica. Le indicazioni del Messale sono così precise che dovrebbe risultarne una uniformità di esecuzione.  
Il primo viene prescritto alla “presentazione dei doni”. È un gesto rivolto a Dio con l’intento di presentargli appunto il pane e il vino, che non sono ancora diventati Corpo e Sangue di Cristo. Pertanto, il gesto che li accompagna non va enfatizzato. È un gesto semplice e sobrio di “presentazione”, per invocare la potenza di Dio che li possa trasformare in sacrificio di Cristo. Il Messale prescrive: Il sacerdote, stando all’altare, prende la patena con il pane e, tenendola con entrambe le mani un po’ sollevata sull’altare, dice sottovoce… Il sacerdote prende il calice e, tenendolo con entrambe le mani un po’ sollevato sull’altare, dice sottovoce… Da notare, la patena con il pane e il calice del vino vanno tenuti con entrambe le mani. Andrebbe quindi evitata la banalizzazione dei gesti o il farli con una sola mano.
Il secondo gesto riguarda il pane e il vino diventati Corpo e Sangue di Cristo, mediante l’invocazione dello Spirito Santo su di essi. È un gesto di presentazione rivolto non a Dio ma al suo popolo riunito, che vi riconosce e vi adora quella presenza reale, vera e permanente del Signore Gesù. Questo gesto, quindi, è diverso dal primo, per il suo destinatario, e va fatto diversamente: con le specie eucaristiche sollevate dall’altare e allungate verso l’assemblea. Il Messale Romano prescrive, in effetti, che il celebrante presenta al popolo l’ostia consacrata, la depone sulla patena e genuflette in adorazione. Poi, presenta al popolo il calice, lo depone sul corporale e genuflette in adorazione. Da notare la genuflessione per adorare il Signore presente nel Santissimo, gesto assente nel primo caso. Alla stessa adorazione è invitato il popolo al quale vengono presentati sia l’ostia che il vino consacrati. Perciò, se non si è in ginocchio ma in piedi si dovrebbe fare un inchino di adorazione mentre il sacerdote genuflette, e tutti dovrebbero guardare le specie eucaristiche mentre sono presentate.
Il terzo gesto si chiama dossologia,in quanto rappresenta la grande conclusione della preghiera eucaristica, che dà “ogni onore e gloria” a Dio Padre onnipotente nell’unità dello Spirito Santo, per/con/in Cristo. È il gesto culmine, che andrebbe sottolineato possibilmente con il canto e nella modalità di esecuzione, che presenta al Padre più in alto possibile il Corpo e il Sangue di Cristo, “Uomo Vivente” per eccellenza che dà gloria al Padre con il suo sacrificio. Nel Messale questo gesto di elevazione non è più limitato, ma si dice semplicemente che il celebrante prende sia la patena con l’ostia sia il calice ed elevandoli insieme canta o dice la dossologia.
Dunque, esiste una progressione nell’esecuzione dei tre gesti, secondo il significato intrinseco a ciascuno di loro e in funzione del loro destinatario.

don Raymond Nkindji Samuangala, febbraio 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

Liturgia della parola e incontro di preghiera

Domanda: Mi capita talvolta di organizzare per il gruppo a cui appartengo una veglia di preghiera. Un mio collega, invece, si è trovato nella chiesa parrocchiale a dover preparare una liturgia della Parola (si dice così?). Ci sono dei criteri da seguire per una e per l’altra celebrazione? L’incontro di preghiera che organizzo per il gruppo e l’incontro di preghiera in chiesa penso sono di diversa natura: ci sono regole e criteri da osservare? Esistono sussidi? Grazie. (Stefania)

La distinzione di fondo si fa tra liturgia e ciò che non lo è. Intendendo per “ciò che non lo è” non un nulla o un senza valore, ma un diverso dalla liturgia. Già il concilio Vaticano II parla di “pii esercizi” o “sacri esercizi”, nel loro rapporto con la liturgia (cfr. SC 13).
Ad oggi, il documento base di riferimento, che ha raccolto e attuato la norma conciliare è il Direttorio su Pietà Popolare e Liturgia (2022), della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. In esso vengono dati i Principi e orientamenti per disciplinare i nessi che intercorrono tra Liturgia e pietà popolare, riaffermando “il primato della liturgia”. Infatti, “l’eminenza della Liturgia rispetto ad ogni altra possibile e legittima forma di preghiera cristiana deve trovare riscontro nella coscienza dei fedeli: se le azioni sacramentali (liturgiche) sono necessarie per vivere in Cristo, le forme della pietà popolare appartengono invece all’ambito del facoltativo. Prova veneranda è il precetto di partecipare alla Messa domenicale, mentre nessun obbligo ha mai riguardato i pii esercizi, per quanto raccomandati e diffusi, i quali possono tuttavia essere assunti con carattere obbligatorio da comunità (gruppi) o singoli fedeli” (n. 11). Nello stesso tempo il Direttorio precisa “che non siano trascurate altre forme di pietà del popolo cristiano e il loro fruttuoso apporto per vivere uniti a Cristo, nella Chiesa, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II” (n. 1). Pertanto, “la facoltatività dei pii esercizi non deve quindi significare scarsa considerazione né disprezzo di essi. La via da seguire è quella di valorizzare correttamente e sapientemente le non poche ricchezze della pietà popolare, le potenzialità che possiede, l’impegno di vita cristiana che sa suscitare” (n. 12).
I criteri orientativi da seguire sono dati dal n. 13 che afferma: “la differenza oggettiva tra i pii esercizi e le pratiche di devozione rispetto alla Liturgia deve trovare visibilità nell’espressione cultuale. Ciò significa la non commistione delle formule proprie di pii esercizi con le azioni liturgiche; gli atti di pietà e di devozione trovano il loro spazio al di fuori della celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti. Da una parte, si deve pertanto evitare la sovrapposizione, poiché il linguaggio, il ritmo, l’andamento, gli accenti teologici della pietà popolare si differenziano dai corrispondenti delle azioni liturgiche. Similmente, è da superare, dove è il caso, la concorrenza o la contrapposizione con le azioni liturgiche: va salvaguardata la precedenza da dare alla domenica, alla solennità, ai tempi e giorni liturgici. Dall’altra parte, si eviti di apportare modalità di “celebrazione liturgica” ai pii esercizi, che debbono conservare il loro stile, la loro semplicità, il proprio linguaggio”. Quindi, i pii esercizi e le pratiche di devozione non sono né da eliminare né da disprezzare nella vita dei fedeli. Essi devono essere valorizzati ed armonizzati con la liturgia, che rimane culmen et fons, “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (SC 10).

don Raymond Nkindji Samuangala, gennaio 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

Celebrazioni domenicali in assenza del presbitero

Domanda: Parrocchie sempre più piccole e scarsità di presbiteri. Anche nella nostra Diocesi, per le necessità imposte da nuovi assetti pastorali, ci si chiede se sia opportuno favorire liturgie domenicali senza presbitero, oppure vietarle per convergere in un’unica celebrazione. Nel primo caso si valorizza l’identità della piccola comunità; nel secondo si coltiva l’idea e l’esperienza di una Chiesa più ampia. Che ne pensa? (Francesco)

Il Concilio Vaticano II, nell’intento di permettere ai fedeli di attingere più abbondantemente alla fonte della Parola di Dio, prescriveva già: “Si promuova la celebrazione della Parola di Dio, alla vigilia delle feste più solenni, in alcune ferie dell’avvento e della quaresima, nelle domeniche e nelle feste, soprattutto nei luoghi dove manca il sacerdote; nel qual caso diriga la celebrazione un diacono o altra persona delegata dal vescovo” (SC 35). Difronte alla difficoltà o all’impossibilità di celebrare l’eucaristia, dovuta a ragioni da non ridurre solo alla scarsità di presbiteri, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha emanato il Direttorio Christi Ecclesia (1988) per disciplinare queste celebrazioni e dare le norme per la loro organizzazione. Recependo tali norme, la nostra Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna ha elaborato il documento Radunati nel giorno del Signore nel quale dà gli orientamenti pastorali per questo tipo di celebrazioni. In tutti i casi, vanno considerate alcune condizioni essenziali (cf. Christi Ecclesia). Si consideri anzitutto se i fedeli non possano recarsi alla chiesa di un luogo vicino. La soluzione è da raccomandare (n. 18). Quando ciò non è possibile, è bene che non manchi ai fedeli il nutrimento della Parola di Dio, per cui è molto raccomandata la celebrazione della Parola, a cui può seguire la Santa Comunione (n. 20), o la celebrazione della liturgia delle ore. Occorre che i fedeli percepiscano chiaramente che tali celebrazioni hanno carattere di supplenza e non possono essere fatte per “comodità”. Non si possono fare là dove la sera precedente si è celebrata l’eucarestia (n. 21). Si eviti, quindi, ogni confusione tra queste celebrazioni e la S. Messa; esse non devono togliere ma aumentare nei fedeli il desiderio della S. Messa (n. 22). Pertanto, c’è necessità di pregare «affinché (il Signore) moltiplichi i dispensatori dei suoi misteri e li renda perseveranti nel suo amore» (n. 23). Per dirigere queste riunioni domenicali siano chiamati i diaconi, gli unici che possono proclamare il Vangelo, tenere l’omelia e distribuire l’eucaristia (n. 29). In loro assenza, possono essere scelti i ministri istituiti per la guida della preghiera. Altrimenti, possono essere designati altri laici preparati, uomini e donne, ad esercitare questo incarico a tempo determinato (cf. n. 30). In sintesi, queste celebrazioni servono là dove risulti l’impossibilità di celebrare l’eucaristia. Tuttavia, esse non si possono sostituire alla S. Messa, da preferire sempre. Pertanto, viene incoraggiato chi può a convergere nel luogo vicino dove viene celebrata l’eucaristia.

di don Raymond Nkindji Samuangala, dicembre 2022
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti

Linguaggio simbolico e didascalie

Domanda: Si dice che i simboli sono una forma di linguaggio assai forte. Tuttavia, molti segni della liturgia restano oscuri per tante persone. Ci sono preti che li spiegano, spesso con esiti positivi; altre volte le spiegazioni affaticano e sbiadiscono la celebrazione. Che ne pensa delle didascalie del celebrante soprattutto durante la Messa? (Ilaria)

L’agire simbolico caratterizza essenzialmente l’atto liturgico. L’ha ricordato papa Francesco nell’ultima lettera apostolica pubblicata il 29 giugno scorso sulla formazione liturgica del Popolo di Dio Desiderio desideravi: “La liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce” (Dd 42).
Comprendere (non dico capire) tale linguaggio è condizione fondamentale per quella vera “partecipazione attiva, cosciente e fruttuosa” cara al Vaticano II. Infatti, “la conoscenza del mistero di Cristo, questione decisiva per la nostra vita, non consiste in una assimilazione mentale di un’idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona. In tal senso la liturgia non riguarda la “conoscenza” e il suo scopo non è primariamente pedagogico (pur avendo un grande valore pedagogico: cfr. Sacrosanctum Concilium, 33)… La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui, l’essere membro del Corpo di Cristo” (Dd 41). Questo coinvolgimento esistenziale accade per via sacramentale, attraverso il linguaggio simbolico proprio della liturgia.
La riforma liturgica del Vaticano II ha inteso ricuperare la cosiddetta “liturgia dei Padri”, non solo perché è quella che ormai è diventata comune nella Chiesa, ma anche per le sue caratteristiche: “brevità solenne, semplicità precisa, sobria, non verbosa, poco sentimentale; disposizione chiara e lucida; grandezza sacra e umana insieme, spirituale e di gran valore letterario” (Burkhard Neunheuser). La dicitura “liturgia dei padri” utilizzata sia dalle riforme dei secoli XI-XV che dal Concilio di Trento, e che il Vaticano II ha inteso ripristinare, si riferisce alla liturgia romana “classica” o “pura” sviluppatasi tra i secoli V-VIII, esempio perfetto di liturgia inculturata.
Si può capire perché lo stesso Concilio Vaticano II stabilisce che “i riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34). Altrove precisa che, per facilitare la partecipazione pia e attiva dei fedeli, “i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano semplificati; si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti, siano ristabiliti, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna o necessaria” (SC 50).
Dunque, i riti della celebrazione liturgica non dovrebbero necessitare di didascalie, in quanto la loro comprensione dovrebbe essere diretta. Tuttavia, considerando la difficoltà dell’uomo moderno a “confrontarsi con l’agire simbolico” (Dd 27) e la necessità che egli “deve diventare nuovamente capace di simboli” (Romano Guardini), il Concilio ha concesso di prevedere nei testi stessi dei riti, “quando necessario, brevi didascalie composte con formule prestabilite o con parole equivalenti e destinate a essere recitate dal sacerdote o dal ministro competente nei momenti più opportuni” (SC 35).
Non si tratta, infatti, di rinunciare al linguaggio simbolico: “non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo. Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare, perché nell’uomo questa dimensione … è costitutiva” (Dd 44). La cosa migliore resta la formazione liturgica!

don Raymond Nkindji Samuangala, novembre 2022
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti