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Ascoltare il grido dei poveri

Si addensano nell’anima pensieri, immagini e preoccupazioni mentre leggo l’ultimo Rapporto Caritas del 17 ottobre scorso. L’anello debole nell’Italia nascosta riguarda 5,5 milioni di connazionali alle prese con l’indigenza assoluta, che non hanno di che vivere; di questi, 1,4 milioni sono bambini e ragazzi. La pandemia economica e sociale non è finita; anzi, ha scavato solchi profondi per gli ultimi. La povertà assoluta è schizzata ai massimi storici e costringe migliaia di persone a mettersi in fila alla Caritas per mangiare, pagare bollette e affitti. Lo sguardo si allarga ed abbraccia le folle di poveri senza il necessario per vivere e senza dignità: è un grido che sale dalla terra. Il sentimentalismo occasionale è insufficiente e talvolta persino irriverente, ma il sentimento-empatia è utile per scuotere coscienze, assumere responsabilità e avviare processi. La povertà, soprattutto in una civiltà che si dice avanzata, non è un fenomeno “naturale”, automatico e inevitabile. Ha cause ben precise da ricercare nel sistema e da denunciare nei meccanismi della finanza e dell’economia. Ambiti che, a tanti, appaiono complessi, troppo tecnici e inaccessibili.
La prima risoluzione da prendere è quella della consapevolezza: informarsi, confrontarsi, prendere posizione. Basta seguire il Magistero della Chiesa e di papa Francesco in particolare. Non lasciamo cadere il grido dei poveri. Diamo voce alla denuncia dell’ingiustizia e facciamo proposte di educazione; senza giustizia non c’è neppure la pace: «Quanti poveri genera l’insensatezza della guerra!». Qualche volta il grido dei poveri si fa “collera”: indignazione, protesta, rivolta. Allora ci si spaventa: il povero viene considerato ingiusto aggressore. Quando i poveri si fanno migranti e profughi non si mette in conto che siamo tutti responsabili, in qualche modo, della rapina e dello sfruttamento sulle loro terre. Abbiamo un doveroso e onesto “mea culpa” da fare.
Una seconda risoluzione ci porta a considerare i nostri stili di vita di fronte alla povertà di così tante persone, vicine e lontane. Anche noi siamo toccati dalla crisi attuale, ma non così drammaticamente. Cominciamo con l’aggiustare lo sguardo perché possa andare oltre il nostro quotidiano e la cerchia dei nostri interessi. Stiamo attenti al rischio della miopia: vederci bene da vicino e non vedere lontano, limitando l’orizzonte e ignorando i drammi dell’umanità di oggi. Ma c’è anche il disturbo visivo opposto: vedere bene lontano e non accorgersi di quel che succede accanto. Si parla con preoccupazione della povertà assoluta che flagella adulti e ragazzi del nostro Paese e tantissimi in altri Paesi (povertà economica), ma ci sono altre forme di povertà e solitudine che interpellano le coscienze. Il nostro stile di vita non può che farsi più sobrio: solidale nella condivisione, attento all’uso delle risorse, equo nelle scelte dell’economia. La povertà è un grosso limite, non solo quando toglie il necessario per vivere, ma anche quando frena lo sviluppo umano, spirituale e culturale della persona. Questa povertà va combattuta. È un disvalore. Una enorme macchia sul planisfero. Una contraddizione della civiltà. Un insulto all’umanità.
Il cristiano non può ignorare l’invito alla pratica della povertà, ma la parola povertà qui ha un altro significato: è una decisione volontaria, liberamente assunta, motivata, ed è persino virtù. Siamo nel cuore del Vangelo! C’è l’esempio di Cristo che «da ricco che era, si è fatto povero» (cfr. 2Cor 8,9): condivisione e partecipazione alla vita dei poveri. Betlemme, Nazaret, le strade della Palestina, il Golgota, sono altrettanti capitoli del programma di Gesù. «La povertà di Gesù può essere la nostra fedele compagna di vita».
Nella povertà vissuta da Gesù e dai discepoli non c’è disperazione ma fiducia: «Questo povero grida e il Signora lo ascolta» (cfr. Sal 34,7); c’è speranza che sorregge l’impegno e promuove l’intraprendenza: così è stato per l’umile figlio del carpentiere. Paradossalmente è una povertà che rende ricchi! La povertà come virtù e scelta di vita rende liberi di fronte alla ricchezza e al potere: un’austerità che non giudica, ma che testimonia il valore dell’essenziale. Per questo il povero evangelico sa vivere con dignità, ristrettezza e povertà: «Ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,12-13). La povertà evangelica rende liberi dai padroni che ricattano e schiavizzano: «Nessuno può servire a due padroni… Non potete servire a Dio e a mammona» (cfr. Lc 12,13).
Vi è una terza risoluzione: prendersi cura dei fratelli; non assistenzialismo: non dare per carità ciò che è dovuto per giustizia. «Non dare un pesce – dice un celebre aforisma –, ma insegnare a pescare». È urgente – scrive papa Francesco – trovare nuove strade che possano andare oltre l’impostazione di quelle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che unisca i popoli» (Fratelli tutti, 169).
«Che cosa posso fare per prendermi cura dei fratelli?». «Quale contributo posso dare per progetti di liberazione?». «Quali passi devo fare sulla via della partecipazione?». Sono interrogativi di una sana inquietudine. La “Giornata dei poveri”, appena celebrata nelle nostre comunità, mi auguro lasci un segno forte che contamini la nostra vita: consapevolezza, nuovo stile di vita, cura.

+ Andrea Turazzi, novembre 2022