Una riflessione sulla pace
Non immaginavo di dover dedicare un altro editoriale alle ragioni della pace contro la guerra. Ingenuità! «S’è sparsa la pace, spargete la voce!». È uno slogan capace ancora di imporre una riflessione, sia pure con il linguaggio tipico di una comunicazione rapida, incisiva, provocatoria. «S’è sparsa la pace»: è andata in frantumi nel bel mezzo della vecchia Europa. S’è sparsa col sangue di tante vittime e con le lacrime di tanti innocenti. La pace è il bene più prezioso, ma anche il più fragile.
«Spargete la voce»: siamo provocati a fare tutti la nostra parte. Nell’era della comunicazione le notizie e le immagini arrivano in diretta dai luoghi di combattimento: Dio non voglia che ci si prenda l’abitudine o l’assuefazione. «Spargete la voce» significa tenere alta la protesta, anzi la denuncia e mettersi al servizio di una cultura di pace: incontrarsi, parlare, scrivere, disegnare e soprattutto dare nutrimento ai pensieri di pace. C’è una voce che risuona quasi ogni giorno: è quel “tacciano le armi” proclamato da papa Francesco. E c’è la voce che sale a Dio incessantemente dai confini della terra e da infinti cuori: «Dona nobis pacem»!
Lo slogan può avere un’altra lettura. «S’è sparsa la pace»: paradossalmente mai come in questo tempo l’idea e la volontà di pace si sono fatte così disperate fra la gente, i gruppi, le comunità; una pace non solo voluta e cercata come assenza di conflitti, ma anche come progetto di società e come accresciuta consapevolezza dell’interdipendenza fra i popoli. Non la guerra ma la pace è nel DNA umano: la fraternità universale è vocazione originaria. «Si vis pacem para bellum (se tu vuoi la pace, prepara la guerra)»: così recitava un celebre motto latino. Sappiamo bene di quale natura era la pax romana, con quali mezzi si imponeva e soprattutto quali conseguenze lasciava: «Desertum faciunt et ibi pacem appellant (fanno tabula rasa e la chiamano pace)» (Tacito). Le legioni romane devastavano i territori che rifiutavano la loro “protezione”, in questo modo Roma installava la sua amministrazione, promettendo la cittadinanza ai sopravvissuti disposti alla collaborazione. Che valore dare allora al «si vis pacem para bellum»? A prima vista può sembrare un invito di buon senso: scoraggiare l’aggressore. Questa strategia di dissuasione generalmente è sfociata in una folle corsa agli armamenti. Così è stato nella storia, così è oggi. Nei settant’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, questa corsa ha prodotto un accumulo tale di armi nucleari capace di annientare parecchie volte il pianeta. I preparativi di guerra hanno effetti di pace? Ci sono davvero la prudenza e la volontà di pace alla base dell’accumulo degli armamenti? L’uomo non ha altro modo di assicurare quello che possiede che con il suo accrescimento. Avere di più sembra profondamente radicato nel cuore dell’uomo: il cuore umano è insaziabile.
Dov’è la sorgente vera della pace? È mia convinzione: non sgorgherà da preparativi di guerra. Che cosa potrà liberare la famiglia umana dalla spirale di una violenza senza fine? Da credente pongo la questione in modo più preciso: non “qualcosa”, ma “Qualcuno” ci potrà dare la pace. Non la pace dei “principi”, ma il “Principe della pace” (Is 9,5). «La pace di Dio che sorpassa ogni intelligenza custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Fil 4,7). Neppure i riti esteriori esorcizzano la guerra, ma una fede profonda in Dio: credendo si spera, sperando si ama.
+ Andrea Turazzi, maggio 2022