I due precetti ugualmente cari a Dio
Immagine: Santo Stefano riceve il diaconato(part), Beato Angelico 1447–1448, affresco Cappella Niccolina (Palazzo Apostolico), Città del Vaticano
Nella Cappella Niccolina (Vaticano), il Beato Angelico, con l’aiuto di Benozzo Gozzoli, ci restituisce la scena solenne della consacrazione dei sette diaconi. Nella cornice di uno scorcio prospettico meraviglioso, il primo realizzato a Roma, Stefano è inginocchiato di fronte a Pietro mentre gli altri sei sono in attesa. Secondo la tradizione, i prescelti erano parte di quei settantadue discepoli inviati da Gesù ad evangelizzare. Il clima in cui avviene questa elezione è teso e rimanda a un episodio del libro dei Numeri. Il brano di Atti 6, infatti, inizia così: In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana.
La mormorazione
Laddove la CEI traduce «sorse un malcontento», il testo degli Atti dice letteralmente: incominciarono a mormorare. Il termine utilizzato è lo stesso che nella Bibbia dei LXX, descrive la gente raccogliticcia (i non ebrei presenti fra il popolo) che mormora contro Mosè e Aronne. Si traccia così un parallelo con la nascente comunità cristiana in cui alcuni ellenisti, cioè ebrei di lingua greca, si lamentano perché le loro vedove non ricevono in modo adeguato il servizio della carità. Gli ellenisti usavano trascorrere gli ultimi anni della loro vita a Gerusalemme per esservi sepolti, cosicché fra loro il numero delle vedove era più alto. Come già Israele nel deserto, la comunità cristiana conosce la prova e, con essa, la mormorazione. Mormorare è l’atteggiamento di chi non pone ogni sua fiducia in Dio, di chi si vede disatteso nelle sue aspettative e non si apre ad una lettura di fede. La vita quotidiana con i suoi imprevisti, con il verificarsi di piccole o grandi ingiustizie mette alla prova, logora i rapporti e fa emergere le diversità fra le persone trasformandole in ostacoli alla pace e alla comunione.
Sette Diaconi
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. I dodici, rappresentanti le dodici tribù di Israele, si trovano a dover intervenire fra due precetti ugualmente cari a Dio: l’annuncio della Parola e il soccorso alle vedove. Essi, da un lato, ritengono primario “servire la Parola”, dall’altro tengono in considerazione le lamentele sorte all’interno di fedeli non ebrei. Eleggono pertanto, sapientemente, sette uomini di buona reputazione i cui nomi: Stefano, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola rivelano una provenienza ellenica. «Dodici e sette» non sono numeri casuali. Luca utilizza qui il termine «dodici» (cosa per lui rara) per accentuare la portata simbolica dell’evento: il rimando alla moltiplicazione dei pani nelle due versioni. Una narra come da 5 pani e 2 pesci (simbolo della Scrittura fatta dai 5 rotoli della torah, e da altri 2 rotoli dei profeti e degli altri due scritti), avanzarono 12 ceste; l’altra, invece, racconta il miracolo a partire da 7 pani. Se il 12 indica le tribù di Israele, il 7 rimanda ai popoli presenti in Palestina all’arrivo degli ebrei, e simboleggia perciò tutte le popolazioni pagane. Proprio attraverso il numero sette si vuole indicare quell’umanità alla quale la Chiesa è inviata.
I sette prescelti non sono mai chiamati diaconi dal testo degli Atti, mentre è ripetuta la parola diakonia (= servizio). Fu questa funzione a far sì che in seguito fosse dato loro questo nome. La loro diaconia non si esaurisce nel servizio della carità, oltre a svolgere un ruolo pacificatore all’interno delle diverse presenze nel popolo cristiano, essi sono inviati, come si vedrà nel libro degli Atti, a predicare la Parola. Del resto protagonista di questo episodio è la Parola. Con essa si apre e si chiude il brano (vv. 2 e 7). Nonostante il grande rispetto che la Rivelazione riserva alle categorie più povere, come l’orfano e la vedova, qui si evidenzia come la Chiesa non sia un’associazione filantropica, ma Sacramento di Salvezza nel tempo il cui compito principale non è già l’assistenza agli indigenti, quanto la distribuzione della mensa della Parola e del Corpo di Cristo.
Dare il Dio della Parola
Lo stesso beato Angelico nel suo affresco testimonia questa lettura «liturgica». Due dei sei diaconi sullo sfondo, reggono un libro e un rotolo, simboli del Primo e del Nuovo Testamento; san Pietro consegna a santo Stefano calice e patena, simboli del nutrimento eucaristico e della sua prossima partecipazione al Sacrifico di Cristo con il martirio. Il brano, supportato dal commento pittorico dell’Angelico, ci invita dunque a riflettere come le attività caritative nascano da una risposta personale alla Parola di Dio che chiama. Oggi si ha una grande sensibilità nei confronti delle attività di volontariato, ma occorre vigilare che dietro ad esse non si nasconda un certo desiderio di protagonismo.
È la Parola di Dio e quindi il Dio della Parola che va annunciato e portato: questo è il bene necessario che nessuno ci potrà togliere. Il Pane della Parola sorregge nei momenti di aridità. Illumina per risolvere i problemi pratici della vita. Essa moltiplica i discepoli e converte i cuori e tutti noi siamo chiamati a comunicarla, in forza del nostro battesimo.
Suor Maria Gloria Riva, aprile 2023