È già cammino sinodale

In prospettiva missione

C’è da augurarsi che il solleone di questi giorni non sbiadisca il ricordo delle tre giornate di studio e di fraternità dei nostri presbiteri. La “Tre giorni” si è tenuta ad inizio estate, ma con la prospettiva di un ulteriore approfondimento dei temi e delle proposte. Dunque, una esperienza in movimento, che dovrà avere una ricaduta sulle comunità della Diocesi: è già cammino sinodale. Da prima del Coronavirus non ci si ritrovava in presenza tra sacerdoti e questo ha dato un tono gioioso alle giornate, pur con i segni di una crisi pesante ed evidenti ripercussioni nella vita pastorale. La maggior parte delle giornate è stata riservata al dialogo e allo scambio in libertà: dall’iniziazione cristiana all’applicazione dell’Amoris Laetitia, dalla prudenza per quanto riguarda la custodia dei dati sensibili (privacy) alla delicatezza della tutela minori. Il tema che ha attraversato le giornate è stato ancora una volta un tema pasquale, ma in prospettiva tutta missionaria: il Risorto presente con la forza del suo Spirito e il coraggio di abbracciare il mondo. Forza, coraggio, abbraccio: tre parole a significare il dinamismo che viene dallo Spirito, l’ardore che ha per fondamento la speranza e l’abbraccio che è volontà di assumere fino in fondo la missione. La riflessione fondamentale non poteva che partire dalla Parola di Dio. È stato proposto come testo base il Vangelo di Luca, in verità da leggere insieme agli Atti degli Apostoli: un’unica opera in due volumi illuminata dalla forte esperienza dello Spirito. È lo Spirito il protagonista della missione. È una costante nei testi lucani vedere l’evento dell’effusione dello Spirito nello spazio accogliente e aperto della preghiera e da qui la spinta formidabile verso l’annuncio. Si aprono due piste di riflessione e di ricerca: la prima sul soggetto della missione, la seconda sull’ampiezza della destinazione.
Sembra utile il riferimento al Vangelo di Marco che avrebbe concluso il suo Vangelo in modo sorprendente: le donne, visto il sepolcro vuoto, dove era stato posto Gesù, «uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura». In realtà, chi legge il Vangelo oggi dà conferma che le donne poi hanno parlato e la storia è andata avanti. Tuttavia, subito all’inizio del II secolo, dicono gli esegeti, si è sentito il bisogno di aggiungere una conclusione “più lunga”. Al versetto 9 il testo di Marco comincia con un riassunto degli episodi di apparizione del Risorto che si trovano negli altri Vangeli, ma riaffiora sempre una parola piuttosto severa: «Non credettero». Gesù dovrà rimproverare «per la loro incredulità e durezza di cuore». Insieme al rimprovero però dirà: «Andando in tutto il mondo predicate il Vangelo ad ogni creatura». Come è possibile se faticano a credere? Noi avremmo suggerito: «Sei in difficoltà? Fermati, rifletti, prega, fai un ritiro di discernimento, confrontati con il padre spirituale… ». Gesù, invece, sta dicendo che persino il dubbio può essere motore per l’annuncio. «Se una parte di te è in difficoltà con la fede può essere che il tuo annuncio sia più vero; se tu fossi già a posto e non avessi alcun combattimento dentro di te, probabilmente faresti più fatica a metterti nei panni di chi non crede e ad essere vicino a chi cerca il senso della vita. Dubiti? Allora vai ad annunciare. Annunciando ti succederà di incontrare il Signore più da vicino». Alcuni esegeti ritengono che questa “finale lunga” di Marco sia da considerarsi come una sorta di vademecum dell’evangelizzatore. C’è tutto in sintesi: apparizioni del Risorto, registrazione dei dubbi, risposte e mandato. È suggestivo pensare che i primi cristiani portassero con sé questo vademecum per essere incoraggiati a raccontare, come avevano fatto le donne, Pietro, Giovanni, i due discepoli di Emmaus, ecc. «Questi versetti di Marco – conclude un autore – sono un’autentica reliquia della prima generazione cristiana».
È significativa la forma con cui viene espresso l’invio missionario: «Andando per tutto il mondo, annunciate tutte queste cose». Non è detto per prima cosa di raggiungere tutti; la prima parola è un verbo nella forma di gerundio: «andando», cioè «mentre andate» – visto che la vita è movimento, partecipazione, relazione – annunciate il Vangelo. In altre parole, la vostra vita sia annuncio. La missione non è un’attività, ma un modo di essere, come la Pentecoste non è un evento, ma uno stato! Il discepolo di oggi, come il discepolo dei primi tempi, avvolto dal mistero della Pentecoste, ripete: «Sulla tua parola getterò le reti». Destinatari? Il mondo! Il mondo è la realtà in cui sei immerso e che reclama speranza. In questi giorni di crisi si tenta di dare un senso a quanto accaduto (pandemia). Molta gente non ci riesce. Davanti alla fragilità e alla morte siamo ricondotti alla concretezza e all’umiltà. Qui entra in gioco la speranza. Bernanos scriveva: «La speranza è una disperazione superata», come la fede un dubbio rischiarato. Si direbbe, paradossalmente, che avanziamo verso Dio quando siamo a terra. Quanto abbiamo vissuto in questi mesi è impossibile da dimenticare. Le ferite sono ancora aperte e chissà per quanto. Ma proprio qui possiamo ritrovare l’essenziale. Il cristianesimo non è nato forse dalla morte? Ha trasformato una tomba in un giardino! In un mondo che ha perso di vista l’orizzonte abbiamo la missione di aprire una prospettiva. Essere cristiano non è semplicemente fare la propria preghiera, fare il proprio esame di coscienza… C’è chi vorrebbe relegare il cristianesimo ad un ruolo privato. La fede fa parte della coscienza personale e dell’intimo dell’anima, ma implica una relazione verso l’altro: ciò fa parte della sua stessa vocazione. Relegare la fede nel chiuso della coscienza equivale a rinnegare, cioè privare la fede della sua dimensione essenziale, svuotarla del suo significato e frenare il suo dinamismo missionario. Non bisogna dimenticare che il DNA del cristianesimo è «fare discepole tutte le creature».

+ Andrea Turazzi, luglio-agosto 2021