“Gente di Pasqua”

In cammino, sulle strade dell’esodo

Suono di campane che riempie le valli del Montefeltro: è Pasqua… Mi sovviene una pagina del Manzoni, dai Promessi Sposi, nella quale egli guarda, con gli occhi dell’Innominato, la gente che accorre verso la chiesa: «[L’Innominato] stette attento e riconobbe uno scampanare a festa lontano; “che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro?”. Al chiarore che andava poco a poco crescendo si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case e s’avviava, tutti dalla stessa parte… tutti col vestito delle feste e con un’alacrità straordinaria». Dalle vallate lombarde alle nostre valli, dove c’è un popolo in movimento, “gente di Pasqua”! Non festeggia “qualcosa” e neppure si mobilita per un giorno segnato in rosso sul calendario, piuttosto è un popolo che, in questo particolare momento, vuole riconsegnarsi a “Qualcuno”. È una volontà espressa in tanti modi, intimi o manifesti, personali o comunitari, con segni che esprimono il fascino dell’antico e la creatività del presente. I riti della Settimana Santa sono per molti un’esperienza forte. A dire il vero la partecipazione della gente è più sbilanciata sulla festa del Natale, con le chiese stracolme per la Messa di Mezzanotte. Eppure, la Pasqua è il centro teologico e temporale della fede cristiana. La Veglia pasquale, in particolare, è il momento più alto e significativo per il cammino della comunità. È la grande notte nella quale ci si connette con la travolgente epica dell’esodo: liberazione dalla schiavitù, passaggio del Mar Rosso, cammino verso la terra promessa, esperienza di un Dio che non sta “sopra”, ma “davanti” ai cammini di liberazione. Nella notte di Pasqua, per i credenti – ma è a beneficio di tutti – si apre un nuovo esodo; si attende il compimento di nuove promesse. Sono i grandi temi della fede e dell’impegno dei cristiani: il Cristo, dopo aver dato la sua vita sulla croce per amore, risorge; entrato nella vita nuova, comunica questa stessa vita a chi lo accoglie. E già suonano le prime note della “sinfonia del nuovo mondo”. L’antico esodo si prolunga nella decisione di chi accetta di “fare il passaggio” ed entra nel programma di Cristo. Le campane di Pasqua, i rami d’ulivo, l’acqua lustrale, sono segni che vengono da lontano, ma chiedono di rivivere in questo preciso momento storico e – perché veri – di parlare ancora.
È davanti agli occhi di tutti la situazione di crisi. Siamo nel momento forse più pericoloso dopo la Seconda Guerra Mondiale. Calza perfettamente il grido del profeta Geremia: «Da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale. Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare» (Gen 14,18). Il cammino dell’esodo ha di questi passaggi difficili. Tuttavia, la marcia inarrestabile avanza sulla via della liberazione. Non è un mito: è storia.
Qualche decennio fa circolava un saggio di sociologia religiosa, autore il gesuita padre Bartolomeo Sorge, che anticipava temi bergogliani. Il libro suonava come uno squillo per risvegliare l’impegno dei cattolici: «Uscire dal tempio». Altri appelli, altri incitamenti si sono ripetuti, fino agli inviti di papa Francesco. La strada che dai sagrati delle nostre chiese si ramifica tra le case segna la direzione della testimonianza, una testimonianza trasparente: la luce deve essere posta sul candelabro perché illumini, non sotto il moggio. Le catacombe non furono mai una strategia dei cristiani; semmai i cristiani vi furono costretti. Altra cosa essere lievito nella pasta e sale che si scioglie per dare sapore. La “gente di Pasqua” – popolo che avanza nel nuovo esodo – non può che mobilitarsi per un’opera di irradiazione. Non in modo generico. Chi ne fa parte ha un posto e un grappolo di vita verso i quali è in debito di speranza. Testimonianza trasparente, ma anche contestuale, perché mai avulsa dalla realtà, e pure proporzionata, perché capace di mediazione.
Chiudo con un’altra citazione manzoniana. Fra Cristoforo è risoluto a chiedere giustizia: «Il mio debole parere sarebbe che non ci fossero né sfide, né portatori, né bastonate». Ecco la replica di uno degli invitati alla tavola di don Rodrigo: «In verità io non so intendere come il padre Cristoforo non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca». Come a dire che certe cose sono vere in chiesa, ma la vita, la politica, gli affari sono altra cosa! Inaccettabile!
La Chiesa che canta l’Alleluia è la Chiesa che sa farsi vicina, che sa parlare, che sa proporsi. Ritornano i tre aggettivi che papa Benedetto XVI lasciò come preziosa eredità ai cristiani di San Marino e del Montefeltro: «presenti, intraprendenti, coerenti».

+ Andrea Turazzi, marzo 2023