Il Transito di San Giuseppe

Arrigoni Alfonso, metà del XVII secolo, pala della chiesa di San Biagio in Castro, Sartiano di Novafeltria (RN)

I Vangeli non indagano sulla morte di san Giuseppe, lo fanno però i testi apocrifi. Secondo il Protovangelo di Giacomo, Giuseppe lasciò questa vita prima della missione pubblica di Gesù e fu assistito nella sua agonia da Gesù stesso e dalla vergine Maria. Per questo il santo patriarca è venerato anche come patrono della buona morte e costantemente invocato dai fedeli durante le agonie dei loro cari. Oggi la pandemia ha costretto molti a morire soli, in una corsia d’ospedale, senza il conforto della fede e nemmeno dei parenti più stretti. Quando la morte dei propri cari era vissuta per lo più in casa non era raro scorgere alle pareti di casa un dipinto con il transito di san Giuseppe.
Nella nostra Diocesi ne troviamo un esemplare a Sartiano nella chiesa di san Biagio in Castro. L’opera, attribuita oggi ad Alfonso Arrigoni, figlio di un noto pittore cinquecentesco nativo di sant’Agata Giovanni Laurentini detto appunto l’Arrigoni (1550-1633), fu un tempo attribuita al Carracci giovane.
L’impianto scenico, davvero singolare, induce a riflettere: il soggetto dell’opera, la morte di Giuseppe, occupa un terzo dell’alta pala, lasciando gli altri due terzi alla visione beatifica del Padre e dei suoi angeli. L’artista affronta il delicato tema della morte con una singolare prospettiva: morire è andare verso il destino eterno preparato per noi dall’amore del Padre. Nelle più recenti tele sul Transito, invece, tutto è focalizzato attorno al capezzale di san Giuseppe e la visione del Padre (se e quando c’è) è relegata in un angolo estremo del dipinto.
Alfonso Arrigoni, collocando i protagonisti nella zona più bassa del dipinto rende evidente il dolore per la dipartita, che la fede non toglie né lenisce, tuttavia, l’ardita prospettiva del resto della pala, apre la sofferenza a una più grande speranza. La scena del trapasso, del resto, è resa con un realismo evidente e crudo. Le figure, molto caratterizzate sul piano psicologico, vestono colori scuri e sordi, come è sordo il loro dolore, e sono illuminati da improvvisi bagliori. Il rimando è alla lezione dei naturalisti romani seicenteschi: il Laurentini, padre di Alfonso, prima di tornare nella terra d’origine, era stato attivo a Roma attingendo molto dai pittori romani. Segna l’evidente influsso del manierismo marchigiano, la cornice dorata di cerchi concentrici che colloca l’evento entro una prospettiva ardita con il progressivo apparire di angeli musicanti.
La mano di Gesù, seduto accanto al letto del genitore, orienta lo sguardo verso il Padre. Al centro della teofania, lo Spirito Santo si libra in volo sotto forma di colomba. Un angelo, quello di sinistra, veste il bianco, il rosso e il blu, colori dell’Ordine dei Trinitari. Non sappiamo quale attinenza storica intercorra fra la committenza e questo Ordine, sappiamo però che alcune Confraternite legate a Santa Maria del Suffragio e alla preghiera per le anime dei defunti, assunsero i medesimi colori dell’Ordine trinitario per la loro ricca simbologia. Una confraternita legata a Santa Maria del Suffragio fu istituita con bolla papale nella vicina Fossombrone nell’anno 1618, grazie alla solerzia di un frate cappuccino, Matteo Landriani. Questo testimonia quanto la preghiera di suffragio per i propri cari e l’affidamento dei defunti a san Giuseppe e alla sua Vergine Sposa, fosse diffuso anche nell’area lungo l’adriatico.
Gesù è un giovanetto imberbe, se con una mano indica la meta finale di ogni credente, con l’altra regge la mano di Giuseppe ormai morente, quasi certificando al genitore il destino che lo attende. Dall’altro lato anche Maria tiene la mano al morente e, intenta a riporre un bicchiere da dove Giuseppe ha appena bevuto, volge lo sguardo verso l’esterno, verso un basso tavolino che reca della frutta. Quel volger dello sguardo non è casuale, Maria in-segna quei frutti che nel loro simbolismo racchiudono il senso profondo della vita del giusto Giuseppe: due prugne rosse e un melograno. Il melograno, accanto al significato più ricorrente di fecondità, applicato spesso alla Chiesa, possiede anche quello di risurrezione, frequente nell’arte copta. Nella tradizione ebraica i chicchi del melograno sono 613 come i precetti della torah, che Giuseppe visse con sacrificio e fedeltà. La prugna invece rimanda all’albero del pruno, segno delle difficoltà e tribolazioni della vita. Giuseppe accogliendo nella verginità la paternità di Gesù ha incontrato tribolazioni e travagli, ma gode ora della grazia di una fecondità assoluta che lo rende padre e custode dell’intero popolo di Dio.
La vita di ciascuno conosce la tribolazione, ma è proprio dentro il rossore del travaglio che si cela il rosso della carità, virtù che ci assimila a Cristo. A questo allude il contrasto fra il rosso dei frutti in primo piano e la trasparenza purissima del bicchiere d’acqua retto da Maria: la sete del morente non è rivolta alla fonte, ma all’acqua della carità che zampilla per la vita eterna e con la quale Cristo corona in noi le opere della fede.

suor Maria Gloria Riva, luglio-agosto 2021