Il Vaticano II e l’altare verso il popolo (prima parte)

Domanda: Esistono testi del concilio Vaticano II che prescrivono veramente l’altare “versus populum” nelle chiese? (Andrea)

Il dibattito postconciliare sviluppatosi attorno alla questione dell’altare “verso il popolo” tutt’ora non si è mai risolto. Le argomentazioni circa il pro e il contro, pur nella loro validità, non sembrano tali da far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Fino adesso, infatti, vengono generalmente utilizzate ragioni d’ordine “pastorale” (celebrazione verso il popolo e vicinanza (fisica) allo stesso popolo riunito, per una visibilità diretta) o a carattere pratico-funzionale (affinché il celebrante vi possa girare attorno), secondo il dettato del Consilium per l’applicazione della costituzione sulla sacra liturgia nell’Istruzione Inter oecumenici, n. 91 per fondare o contestare la posizione dell’altare verso il popolo. A mio parere, la risposta esauriente non può prescindere dalla comprensione teologica di tutta la riforma conciliare, in particolare la comprensione che ha la stessa Chiesa in rapporto a sé stessa, alla sua missione e alla Liturgia. La Chiesa del Vaticano II si ricupera quale “sacramento di salvezza in Cristo” (LG, 1), “corpo mistico di Cristo” (LG, 7), popolo di Dio, che ha per capo Cristo (n. 9), “famiglia di Dio” (n. 32), ecc.
È questa unica realtà, costituita dalla Santissima Trinità in unione-unità-comunione tra la gerarchia e i fedeli laici e partecipe, in modi diversi, alla stessa missione del Figlio di Dio, che si esplicita nel triplice ministero sacerdotale, profetico e regale (cf. LG, nn. 34-36).
La partecipazione dei fedeli laici a questo triplice ufficio di Cristo Sacerdote, Profeta e Re trova la sua radice nell’unzione del Battesimo, il suo sviluppo nella Confermazione, il suo compimento e sostegno dinamico nell’Eucaristia. Nel Rito del Battesimo viene detto che è il Padre stesso a consacrarci con il Crisma di salvezza «perché inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, siamo sempre membra del suo corpo per la vita eterna». Per il semplice fatto di essere battezzati si è sacerdoti, non sacerdoti ordinati, che vuol dire con il sacramento dell’Ordine, ma partecipi del sacerdozio comune dei fedeli. Il Battesimo, dunque, ci ha inseriti nel Corpo di Cristo che è la Chiesa e, nella Chiesa siamo chiamati ad esercitare questi doni che il Padre ci ha dato, siamo diventati partecipi della vita di Cristo e della sua missione, siamo diventati cristiani, ossia «unti» di Spirito Santo, incorporati a Cristo, che è unto Sacerdote, Profeta e Re. Sono gli stessi “munera”, cioè carismi, uffici, compiti, impegni, doni di Cristo. In quasi tutti i documenti del Concilio emerge il richiamo costante ai tre uffici o compiti che ricevono i credenti in Cristo, in virtù del dono del battesimo (cf. Lumen Gentium, cap. 3 e il decreto Apostolicam Actuositatem).
Anche i fedeli laici sono quindi partecipi della triplice funzione di Cristo, affidata alla sua Chiesa. Pertanto, “partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e sé stessi con essa così tutti, sia con l’offerta che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica, non però in maniera indifferenziata, bensì ciascuno a modo suo” (LG, 11). Il corsivo è mio, per rimarcare il cambiamento di terminologia nel Vaticano II rispetto al linguaggio del passato riferito all’azione dei fedeli laici nella vita della Chiesa, e per evidenziare quanto tale terminologia sia espressiva di una diversa e specifica comprensione del posto e del ruolo dei laici anche nella celebrazione liturgica. Nel prossimo articolo cercheremo di scoprire come tutto questo si rapporti con la questione dell’altare verso il popolo nella riforma liturgica del Vaticano II.

don Raymond Nkindji Samuangala, luglio-agosto 2022
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti