L’abbraccio tra fede e bellezza (Dicembre 2018)

Raffaello Sanzio, Disputa del Sacramento, affresco (cm 500×770), Musei Vaticani, Città del Vaticano
Nel primo atto creativo di Dio già compare la bellezza. «E Dio vide che era cosa buona» (Gn 1,4.10.12.18.21.25.31) è un ritornello che scandisce ogni giorno della creazione e sigilla l’opera divina in un «più in là» che troverà il suo compimento solo nell’eternità. Dio vide che ogni cosa era buona, cioè «tov» in ebraico, e «kalos» in greco. In entrambe le lingue sacre, quel buono è anche bello ed è implicitamente corrispondente al vero. Così mentre la terra schiudeva i suoi occhi alla luce sottraendosi al Caos grazie all’Ordine divino, ecco che le fu impresso, come orma divina, proprio il sigillo della bellezza. In un altro Principio, quello narrato da Giovanni nel suo Prologo, un raggio della bellezza divina ci fu partecipato grazie alla misteriosa Incarnazione della seconda Persona della Trinità. È proprio a questo punto della storia della salvezza che quell’antica promessa di Bellezza diventa realtà e che quel grido uscito dal cuore divino, quando tutto era «tov», si manifesta pienamente offrendosi, sotto il velo della carne, alla contemplazione dell’uomo. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui (il Verbo), e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3). Così fede e bellezza, contemplazione e desiderio profondo di corrispondenza con la vocazione originaria, che è il motore stesso della fede, sono intrecciate fin dall’origine dell’esperienza umana. Forse la proibizione a realizzare immagini, propria del primo testamento e del giudaismo, aveva lo scopo primario di ricordare che la bellezza era celata nell’opera creatrice di Dio e che solo per rivelazione divina l’uomo poteva tornare a disporne e ad appropriarsene. Questa rivelazione giunse e fu chiara in quell’«ora» cui Gesù Cristo anelò tutta la vita. L’iconodulia, infatti, inizia sul Calvario laddove la Veronica, spinta da un gesto di amorosa pietà, deterge il volto del Cristo con il suo velo. L’immagine che vi resta impressa è la prima rivelazione visiva del Mistero. Anche Charles Peguy stigmatizzò quest’attimo descrivendo la Veronica come una ragazzetta da nulla capace, col suo fazzoletto, di cogliere una traccia eterna. Qui è la radice dell’arte cristiana, ma in particolare dell’arte orientale che è per eccellenza teofania del Mistero, rivelarsi gratuito e solenne di Dio all’uomo. Sotto l’albero della croce, la Madre, Giovanni e le pie donne non ricevettero soltanto la sorgente della vita sacramentale ma ebbero in dono l’accesso alla bellezza. Una tale acquisizione non fu né facile, né scontata, se pensiamo che tra le pagine più difficili della storia della Chiesa ci fu, appunto, quella della lotta iconoclasta. Anche l’arte fu vilipesa e crocefissa, specie quella che trova la sua radice in un fatto inusitato: l’eterno si è reso presente e l’insondabile bellezza del Verbo si è fatta misurabile. Così l’arte delle icone esprime in modo diretto il nodo di congiunzione fra fede e bellezza, fra arte e Mistero. È noto, infatti, che l’icona si scrive, è un trattato di teologia per immagini il cui dispiegarsi sfugge alle mani dello stesso autore. E basterebbe far passare la vita del Grande Andrej Rublëv per rendersene conto. Certo il cammino dell’arte cristiana fu lungo e in occidente, approssimandosi l’umanesimo cristiano, si avvertì il desiderio di fissare lo sguardo sul Mistero dell’Incarnazione. Cristo è presente qui e ora, nell’uomo e nella cultura di ogni tempo. Dunque, ci si allontanò progressivamente dalle rigide soluzioni formali, rigide perché severamente teologiche, dell’arte orientale per inverare il Mistero nelle forme e nei luoghi in cui quello stesso Mistero era contemplato. Così da Duccio di Buoninsegna, che immerse con la sua Maestà la vita di Cristo e di Maria nella cornice storica di Siena, fino a Raffaello, che nella sua Disputa del Santissimo Sacramento ritrasse i personaggi più famosi o autorevoli dell’epoca nei panni dei Santi, l’arte declina il Vangelo, educando gli uomini ad “incarnare” la fede. La domanda sul rapporto tra fede e bellezza non sarebbe mai sorta tra medioevo e rinascenza, tuttavia, quando si venne a deteriorare quel rapporto (a volte conflittuale ma sempre fecondo) fra Chiesa e artisti, ecco iniziare un declino del quale ancora non abbiamo conosciuto l’arresto. Lo straordinario teologo Huns von Balthasar stigmatizzava così l’epoca moderna che, allontanandosi a grandi passi dalla bellezza si è allontanata anche dalla fede: La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare (H. U. von Balthasar, Gloria, Jaca Book, Milano, 1985, vol. I, p. 10). Così sorge, con il Principe Puskin di Dostoeveskij la famosa domanda: Quale Bellezza salverà il mondo? Una domanda che, non va dimenticato, scaturisce dalla contemplazione del Cristo di Holbein: un corpo già in decomposizione, lontanissimo dal fatto impensabile della Risurrezione. Una domanda che rimane per molti un enigma, qualcosa che inspiegabilmente attrae, ma non trasforma perché non diventa un incontro. Solo nell’incontro, infatti, fede e bellezza torneranno a stringersi in un abbraccio. La principale frattura che ha determinato lo scollamento fra fede e bellezza fu l’individualismo dell’arte del Novecento. Scomparsi i grandi committenti cristiani, terminata la pagina dei vedutisti o della ritrattistica di nobili e imperatori fra Sette e Ottocento, ecco che le scoperte della tecnica (e in particolare l’avvento della fotografia), costrinsero l’arte a ritagliarsi un angolo tutto suo.
Non più in dialogo con la committenza, l’artista incominciò a dipingere liberamente dando sfogo alla propria percezione, andando poi a cercare chi potesse apprezzare la sua opera. La solitudine dell’artista è la solitudine dell’arte. Lo aveva compreso pienamente Paolo VI nel suo messaggio agli artisti a chiusura del Concilio Vaticano II: «Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi… Non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda!… Ricordatevi che siete custodi della bellezza nel mondo. Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione». Forse il degrado cui si assiste nel panorama artistico mondiale (riconosciuto dagli stessi non credenti) mette a nudo davvero questo: senza fede non c’è bellezza e senza bellezza non c’è fede.
suor Maria Gloria Riva