L’unità: dono e responsabilità (Maggio 2018)

Dall’Omelia nella Santa Messa del Crisma tenuta dal Vescovo Andrea Cattedrale di Pennabilli, 29 marzo 2018

L’unità è parte del progetto di Dio; è la missione di Gesù: «Riunire i dispersi figli di Dio» (Gv 11,52); è dono della Pentecoste; è frutto dell’Eucaristia; è, per i presbiteri, esigenza della partecipazione all’unico sacerdozio. L’unità è un dono! Ma l’unità è anche una responsabilità. Nella prospettiva secondo Matteo l’impresa dell’evangelizzazione è indicata come itineranza: «Euntes docete…» (Mt 28,19); nella prospettiva giovannea la missione viene indicata come scaturente dall’unità: «Uniti perché il mondo creda» (Gv 17,21). Ce lo siamo ripetuti tante volte: perfino il nostro incontrarci con fedeltà per lo studio, per la preghiera, per la riflessione pastorale non è rubato all’apostolato, alla parrocchia. Quando manchiamo a questi appuntamenti senza un serio motivo, non infliggiamo una ferita soltanto al nostro presbiterio, ma togliamo forza allo slancio missionario. C’è una gerarchia nei nostri doveri sacerdotali. Ebbene, quello di trovarci in comunione è tra i primi (prima della benedizione delle case!). Che bello, anche per i fedeli, saperci, il venerdì, riuniti in preghiera, concordi nello studio, solleciti nella programmazione e… a pranzo insieme. Di questo tipo di “assenza” i fedeli non ci rimprovereranno e, se lo facessero, potremo replicare che la nostra unità è per loro. È per la causa del Vangelo che “facciamo Cenacolo”! Del resto, è proprio il Cenacolo la nostra casa-madre: dal Cenacolo si parte e si torna. Come il movimento del cuore. Ci sono momenti in cui l’unità è visibile, momenti come questo (celebrazione crismale, ndr), sublime e commovente, ma ci sono anche quelli meno visibili, altrettanto importanti: pregare gli uni per gli altri (tutti preghiamo il breviario, all’incirca alla stessa ora… è come un ricamo sulla Diocesi, come i cori stereofonici di Bach che salgono dalla Val Marecchia, dalla Val Foglia e Val Conca, da San Marino), farci spazio nel cuore per un’autentica simpatia (ricordate il grido di Paolo: «Fatemi posto nel vostro cuore» 2Cor 7,2). Non tutti abbiamo avuto la stessa formazione e gli stessi maestri, non tutti abbiamo le stesse sensibilità… Che formidabile testimonianza è far brillare l’unità in tutti giacché l’unità non è uniformità. «Guarda come si amano!», sarebbe il sussurro della Diocesi. Ci sono poi tanti altri aspetti dell’unità a cui, per ragioni di tempo, accenno appena. Farci visita (quando siamo malati, ma anche in altre circostanze), interessarci delle necessità senza essere invadenti, renderci disponibili nella collaborazione. E poi c’è la correzione fraterna, così difficile da praticare – quanta prudenza esige – perché presuppone un “di più” di amore, un “mettersi nei panni del fratello”, la volontà di un bene maggiore per la persona singola, anzitutto, ma anche il bene dei fedeli. La correzione fraterna rifugge dalla condanna, è medicina, è aiuto, ha orrore delle indiscrezioni, non lascia tracce (neppure sui cellulari!). Per parte mia non devo che ringraziarvi per la vostra benevolenza; una benevolenza che, a volte, ha la forma della pazienza (più che giustificata!), altre volte la forma dell’incoraggiamento (davvero desiderata), altre volte della simpatia (grazie!). Vorrei dirvi anch’io il mio affetto. Una dichiarazione che un po’ mi imbarazza per il timore sia indiscreta e per il rischio, poi, di essere smentita dalle mie tante mancanze, sviste, superficialità.

Unità tra di voi, unità col vescovo, unità anche con i nostri laici. Già nella prima parte della Visita Pastorale ho toccato con mano la presenza di laici che vivono un’intensa vita spirituale, di preghiera, di amore al Signore e alla Madre di Dio. Diversi di loro non temono di esprimere la loro fede in situazioni e ambienti difficili (qualche volta ostili): scuola, fabbriche, farmacie e ospedali… Alcuni hanno trovato la via della “rivincita”, cioè «mettere amore dove non c’è amore». E ci sono i laici più vicini, i nostri collaboratori: alcuni sono davvero preparati culturalmente, professionalmente, ma soprattutto in umanità (la vita di famiglia è una grande scuola di umanità). Non possiamo trattarli come semplici esecutori (pretendere l’unità in questo senso), sottoposti al nostro arbitrio, ai nostri puntigli, alle intemperanze del nostro cattivo carattere. Come prepariamo, ad esempio, gli incontri del Consiglio Pastorale Parrocchiale e del Consiglio degli Affari Economici? La parrocchia alla quale siamo stati mandati (la Diocesi per quanto mi riguarda) non ci appartiene, non è il nostro “reame”. C’è l’eredità di chi ci ha preceduto, il rispetto per la sua tradizione, l’equilibrio fra le diverse anime, il comune riferimento all’intero presbiterio, senza punte di singolarità, al vescovo, al magistero del Santo Padre e della Chiesa. San Paolo direbbe: «Non fatela da padroni» (cfr. 2Cor 1,24). La pratica dell’unità, se per un verso è un dono che appartiene alla mistica, per un altro verso richiede ascetica. C’è un lavoro su noi stessi, una costante vigilanza e – con l’aiuto di Dio – un superamento dell’individualismo. C’è una radicalità, non solo nella povertà, nella castità, nell’obbedienza, ma anche nell’unità: consiste nel morire a noi stessi. Ma non vorrei che l’espressione ci traesse in inganno. In rilievo non è il morire, ma l’amore; in rilievo non è lo scendere, come seme, nell’oscurità della terra, ma il portare frutto, la germinazione. Se l’unità è una realtà così grande, se è stata ottenuta a caro prezzo da Gesù, buttiamoci generosamente in questa impresa. «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32): l’Innalzato innalza ciascuno di noi con lui. Ognuno dica nella fede, con generosità e con gioia: «Sulla croce c’è un posto vuoto: è il mio. Davanti Gesù, dietro, accanto a lui, il mio posto!». Ci accompagni, ci sia vicina, ci unisca, lei, Maria, la madre dell’unità: la Regina del Cenacolo. Così sia.

✠ Andrea Turazzi