Riflessioni in margine all’assemblea pastorale di fine anno. Si sono appena spente le luci sull’assemblea diocesana di fine anno pastorale. È stato uno spettacolo vedere duecento laici impegnati, a piccoli gruppi, nella condivisione e tutti insieme nella invocazione allo Spirito Santo. Tre i verbi guida: riconoscere, raccontare, ringraziare. Quei duecento non parlano di sé, ma di Gesù Cristo e di quello che significa la sua morte e risurrezione per le loro comunità e le loro esistenze (il kerygma). Sono membri dei Consigli pastorali, catechisti, ministri, semplici fedeli, impegnati nel cammino che la nostra Chiesa sta facendo, tra luci e ombre, entusiasmi e fatiche, “tra la gente con la gioia del Vangelo”. Ognuno di loro è consapevole che «Dio ti invita a fare quello che puoi e a chiedere quello che non puoi» (SANT’AGOSTINO, La natura e la grazia, 43,50). Ripeto, significativa, importante e bella l’opportunità di quest’assemblea: un germe promettente di sinodalità, una esperienza educativa, un incontro ravvicinato di Chiesa. C’è stata una abbondante raccolta di esperienze e di scritti. Molti, infatti, hanno lasciato una pagina con testimonianze e rilievi, quasi una risposta alla Prima Lettera di Paolo ai Corinti (testo guida per l’anno pastorale 2017/18). Già si va mettendo in moto l’elaborazione di quanto è stato raccolto, in previsione del cammino futuro, mentre godiamo di un’altra indicazione autorevole e formidabile, dalla quale non possiamo prescindere: la recente esortazione apostolica di papa Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Gaudete et Exsultate. Vorrei soffermarmi sulle considerazioni che papa Francesco fa su «due sottili nemici della santità» e, più in generale, sull’azione pastorale. Può darsi che i nomi usati per identificare queste due “falsificazioni” appaiano ostici ai più, eppure denunciano atteggiamenti da identificare e smascherare anche dentro di noi: gnosticismo e pelagianesimo. Sono due modi di pensare che hanno fatto la loro comparsa nei primi secoli del cristianesimo e poi sono stati combattuti nelle loro formulazioni, ma sopravvissuti nel loro spirito. Gnosticismo. Per incisività e quasi in forma provocatoria racconto una simpatica esperienza personale. Per la prima volta celebravo un solenne pontificale nello splendore della Cattedrale di San Leo, presenti i miei familiari. La loro presenza è per me motivo di imbarazzo, per loro di forte emozione. A cena, inatteso, l’intervento della mia giovane nipote: «Ma cosa sei andato a dire da lassù? Cose lontane dalla realtà, dalla gente… incomprensibili, perfino strane». Quelle parole hanno raffreddato l’atmosfera familiare. Io provo a replicare. Per tutta risposta, Rita mi consiglia un libro che ha appena letto. L’autore è uno psicoterapeuta. «C’è la prefazione del Dalai Lama – aggiunge – è tutto sulla tolleranza e l’amore per ogni persona». Rita è una cara ragazza. In negozio è la commessa preferita per il suo modo di accogliere i clienti e di ascoltare le loro confidenze. E io sono fiero di lei. Ma, per lei – e questo vale per tanti – i contenuti della fede non sono che simboli su cui scremare quell’arte del buon vivere che tutti dovrebbero praticare. Fin qui mia nipote… Vado oltre. Tanti pensano che le dottrine dividano, che i dogmi siano estranei alla ragione («cose di Chiesa»). Lo gnosticismo non è mai morto nella Chiesa, ha solo cambiato forme e firme. Questo il principio fondamentale: nella religione c’è una fede comune che può bastare ai semplici e c’è una scienza riservata all’uomo consapevole che cerca spiegazioni razionali. Il cristianesimo, allora, viene risolto come rappresentazione religiosa di concetti elevati e la rivelazione è un’etica utile all’uomo. Come rispondere? Rispondo riproponendo Gesù Cristo, in carne e ossa, nato da una fanciulla di Nazareth. Non è un principio da difendere, ma una persona. L’incontro con lui è un avvenimento reale che può trasformare la vita. Il cristianesimo non è una questione di conoscenza o di coerenza, semmai è una questione di “fortuna”: «Incontrare lui e la potenza della sua risurrezione» (Fil 3,10). Alle nostre comunità non manca la ripetizione letterale dell’annuncio, manca spesso l’esperienza dell’incontro con l’unico mediatore e salvatore, Gesù Cristo. La gnosi si insinua nell’atteggiamento cortese e ben disposto verso il cristianesimo, tendente ad umanizzarlo. Umanizzazione, in questo caso, significa riduzione entro le coordinate di comprensibilità, dettate unilateralmente dalla modernità, con esplicito invito a lasciar perdere quello che non è condivisibile. Strana umanizzazione quella che impone il silenzio su Gesù di Nazareth, sul suo mistero, sulla sua storia e sulla sua reperibilità, oggi e qui. Pelagianesimo. L’eresia pelagiana prende il nome dal pio monaco bretone Pelagio, che ha proposto un sistema teologico fortemente naturalistico. La redenzione per lui è un appello ad una vita più alta, da conquistare con le proprie forze. Pelagio ha una grande nostalgia dei tempi d’oro della romanità, quando i Padri brillavano per le loro qualità morali. Gesù Cristo, secondo lui, offre il suo esempio; in lui risuona l’appello ad una vita più alta. Lo spirito pelagiano si manifesta soprattutto nella sua ricaduta volontaristica: si pensa di riuscire facendo da sé. La volontà è una risorsa: con l’impegno si può raggiungere qualche risultato morale, ma altro è la grazia. Essa è data in dono a chi si fa bambino, a chi è umile e si riconosce bisognoso. È il dono di Cristo che ha detto: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). Atteggiamenti pelagiani sono presenti in tante delle nostre imprese pastorali, allorché diamo troppo credito alle nostre strategie e ai nostri progetti. Confidiamo più nelle nostre risorse che nella grazia, più nelle nostre iniziative che nella preghiera. Salvo poi soffrire tremendamente per gli insuccessi. Nella vita personale, al fondo del volontarismo si celano orgoglio, presunzione ed una sorta di malintesa fedeltà a se stessi, come in una sfida nella quale si perde di vista «lui e la potenza della sua risurrezione», con una narcisistica ricerca di sé, confondendo fedeltà con coerenza: la fedeltà dice il riferimento ad una persona, la coerenza ad un principio. Qui la radice del rigorismo. Qui l’equivoco di pensarsi superiori agli altri. Teniamo presenti questi pericoli, mentre ci accingiamo a pensare al nuovo anno.
✠ Andrea Turazzi