Quel muoversi che fa Comunione

Una Diocesi senza piazza. Una Cattedrale graziosa come una bomboniera ma non facilmente raggiungibile da tutti. Un territorio su due stati. Un’amministrazione pubblica condivisa da due regioni e due province. Una rete stradale tortuosa e talvolta impervia. Eppure, ce la mettiamo tutta perché la Diocesi di San Marino-Montefeltro viva e sperimenti l’unità. La comunione non è stasi ma movimento, come il cuore che, fermo al suo posto, attrae e invia. C’è un movimento che è dispersione e dissipazione e un movimento che è relazione e incontro. Per la comunione fra tutti è indispensabile che ognuno faccia la sua parte, che ciascuna comunità parrocchiale viva in se stessa l’unità e la porti in dono alla Diocesi, che movimenti, associazioni e gruppi non girino su se stessi e che i centri diocesani siano presenti sul territorio come realtà animatrici e di servizio.
Il Programma Pastorale diocesano ha come obiettivo ricordare a tutti d’essere costruttori di comunità negli ambiti di vita, a partire dai più normali: lavoro, famiglia, studio, parrocchia, relazioni, ecc. Ma non basta: occorre allargare gli spazi della carità, maturare un cuore grande e uno sguardo sempre più attento. In questa tensione verso la comunione trova il suo posto il messaggio vocazionale; “il poliedro delle vocazioni”: molteplicità di chiamate e di risposte: «Va’ oggi a lavorare nella mia vigna» (cfr. Mt 21,28). Sul piano pastorale, una delle più alte forme della carità è l’accompagnamento delle persone nella restituzione a se stesse, alla loro fondamentale destinazione che è la relazione e il servizio. È questo, in fondo, che chiamiamo vocazione. La comunione – l’abbiamo scritto tante volte – è una realtà ontologicamente connessa con la natura stessa della vocazione cristiana. Parimenti lo è la sinodalità (parola riscoperta, ma a rischio di diventare slogan).
«Tutti sul posto, ognuno al proprio posto»: una bella sfida che, paradossalmente, trova le maggiori resistenze su questioni del tutto marginali. Si tratta di costruire una casa, o forse, secondo i suggerimenti di papa Francesco, di allargare i cordoni di una tenda. Nell’Evangelii gaudium ci ha invitato ad avere coraggio e a costruire una comunione dinamica, in movimento. Il paradigma missionario diventa cammino che genera legami. In altro modo si può dire: si fa comunione solo cominciando a muoverci insieme. A questo punto vorrei inserire l’abbozzo di tre riflessioni.
La prima è sul verbo passare inteso anzitutto come disponibilità a fare spazio al nuovo. In questo senso il primo grande nemico è il “si è sempre fatto così”: non si tratta di un altro slogan o di un triste mantra. Passare è anche saper cedere ad altri il proprio incarico, la propria visibilità; passare la mano perché il servizio non finisca per corrompersi come potere o autoreferenzialità (dall’incaricato dei fiori al responsabile degli affari economici, dal capochierichetto al vescovo).  Intendo il verbo passare (un verbo squisitamente pasquale) come trasparenza: “passi” il Signore, non “passino” i nostri punti di vista, le nostre singolarità liturgiche o le nostre rigidità.
La seconda: ciò che vogliamo trasmettere non è una dottrina, ma l’esperienza di un incontro fondamentale che genera una passione. Una passione coinvolge certamente la parte intellettiva, ma anche quella affettiva e spirituale. Una passione così potrà forse configurarsi come un “pensiero incompleto”, ma che tocca la realtà. Dunque, un pensiero meno preciso, ma più reale, più permeabile ai problemi che tutti i giorni ci troviamo ad affrontare, un pensiero fragile e coinvolgente, vulnerabile e vero.
Terza riflessione: muoversi insieme è rischioso, soprattutto in epoche in cui le mete sembrano molto più incerte di un tempo, ma è bello e profondamente umano. Grandi questioni si stagliano di fronte a noi; vanno affrontate con il coinvolgimento di tutti (questioni etiche, mondo economico, politica, emergenza educativa, nuove forme di povertà, ambiente…). L’esperienza del Cammino Sinodale che abbiamo intrapresa (dispiace che qualcuno non si sia lasciato coinvolgere) riveste questo significato: è soprattutto luogo di ascolto e di confronto, perché è indispensabile cercare la verità insieme, anche quando ci spiazza. Qualche volta provo stupore e turbamento nella sproporzione fra i grandi orizzonti e il nostro piccolo cabotaggio, costituito ad esempio dalla Messa d’orario a cento metri da casa, con lo stesso coro e i canti anni ’60, con gli stessi catechisti, con la stessa predica; segnato dalle Messe domenicali stipate dai “genitori del catechismo” di felice inconsapevolezza, dai Consigli dove gli indirizzi pastorali sono le uniche questioni di cui non si discute mai. Absit iniuria verbis! Eppure, si deve continuare nella fedeltà anche alle piccole cose: “grandi orizzonti e piccoli passi”. L’appello ricorrente: «Essere costruttori nei cantieri della comunità» riguarda tutti e tutti da vicino; ci provoca ad uscire dalla nostra confort zone perché la nostra fede torni a generare passione, perché ci renda capaci di rinnovare relazioni e strutture, di offrire una speranza credibile e di essere lieto annuncio.

+ Andrea Turazzi, maggio 2023