Gruppi Sinodali aperti, diffusi, capillari e “dal basso”
Ho sentenziato: «Il sistema cristianità non esiste più, ma non è finito il cristianesimo!». In effetti cristianità e cristianesimo sono due realtà diverse. Un collega, molto presente sulla questione dell’impegno sociale dei cattolici, ha giudicato troppo sbrigativa la mia affermazione: «I cristiani devono cercare nuove vie per permeare la società civile dei propri valori promuovendo leggi e istituzioni specifiche e concrete, proprio perché il cristianesimo non è finito».
Accolgo la precisazione, mentre sto condividendo uno spazio di confronto in un “Gruppo Sinodale”. In questo momento storico è sempre più chiaro il dovere di mettersi in ascolto della realtà (nel Programma Pastorale Diocesano è stata indicata una triplice direzione dell’ascolto: ascoltare il grido dell’umanità, delle giovani generazioni, del pianeta). L’orizzonte è molto vasto, ci supera, ci fa sentire inadeguati. Ma non siamo dispensati dall’informarci, dal riflettere e dal prendere posizione come credenti sulle grandi questioni dell’attualità: dall’accoglienza della vita alla cura degli anziani, dalla giustizia sociale alle migrazioni, dalla questione clima alla crisi demografica, fino alla emergenza educativa. Chi viveva in un sistema cristiano poteva delegare alla vita collettiva molto del lavoro personale che avrebbe dovuto fare come singolo o come nucleo famigliare. Chi non è consapevole dei cambiamenti strutturali avvenuti rischia di orientarsi secondo riferimenti che non esistono più. Altro rischio: limitarsi a ripetere cose pensate da altri, rinunciando ad un pensiero originale, libero e profetico (controcorrente); non necessariamente uniforme, ma aperto al dialogo, radicato nel magistero sociale della Chiesa, espressione di comunità che vogliono essere lievito nella storia, che non si rassegnano a stare a guardare. Papa Francesco invita di frequente a far scaturire dalla fede un pensiero che ispiri l’azione, che aggreghi compagni di cammino e che si proponga di cambiare il (dis)ordine attuale delle cose. Diversamente – per dirla con parole sue – la Chiesa diventa museo.
L’allargamento del Sinodo dei Vescovi (quello che si terrà a Roma nell’autunno del 2023 con le sue prerogative canoniche, ndr) a “Cammino Sinodale” che coinvolge tutto il popolo di Dio è un assist geniale per l’avvio di un nuovo modello di pastorale. Il “Cammino Sinodale” sarà portato avanti e sarà verificabile nei “Gruppi Sinodali” aperti, diffusi, capillari e “dal basso”. Nella presentazione del “Cammino Sinodale” agli operatori pastorali (16 ottobre scorso) è stata adoperata la metafora delle finestre spalancate che immettono aria fresca e nuova nelle comunità: «Forse il vento scompaginerà i nostri schemi. Ma non si deve avere paura: “Là dove cresce il rischio, cresce anche ciò che salva” (F. Hölderlin)»! Le finestre e le porte spalancate sono un motivo ricorrente nelle raffigurazioni della Pentecoste; una intuizione che esprime efficacemente l’apertura, il coraggio e l’intraprendenza che lo Spirito Santo infonde. Lo Spirito fa sognare nuovi orizzonti, suggerisce pensieri audaci, rinfranca le braccia infiacchite. In pratica: fa maturare una spiritualità sempre più missionaria e sempre meno intimista.
Il primo passo è l’ascolto. Chi ascolta si apre per capire profondamente l’altro, per mettersi nei suoi panni e creare presupposti di dialogo. Così inteso, l’ascolto non è una tattica, ma ospitalità e silenzio perché l’altro possa aprirsi a sua volta: nell’ascolto autentico c’è gratuità e libertà. A questo primo passo – non facile! – seguiranno la condivisione, la parola e la collaborazione. Siamo cristiani fra persone che non lo sono e che non sempre sono interessate ad esserlo. L’ascolto è fatto anche di quella discrezione che sa bussare o interpretare il “non detto”. «A chi paragonerò questa generazione? – si chiedeva Gesù -; essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato”» (Mt 11,17).
A volte il cattolico impegnato dà l’impressione di essere più preoccupato del fare che dell’essere, affannato attorno ai programmi e poco attento alla domanda decisiva: chi siamo? Siamo di quei cristiani che «fanno salire, nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi?» (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 21). Talvolta, vedendo il calo di presenze, ci preoccupiamo di sapere se la Chiesa è capace di conservare il numero dei suoi membri. Ma la vera questione è sapere se è capace di attirare nuovi fratelli con la forza e la bellezza del Vangelo. Questa è la vitalità della Chiesa.
+ Andrea Turazzi, novembre 2021