Creerò spazio in me, ma per l’altro (Giugno 2016)

Non è un’omelia. Assolutamente. Altra la finalità, altro il genere letterario. Chi scrive, tuttavia, non sa staccarsi da quanto è narrato dall’evangelista Giovanni a proposito della terza apparizione di Gesù, l’apparizione sulle rive del lago di Galilea. L’editoriale parte proprio da qui. Da un sito lontano e remoto, ma al tempo stesso vicino e familiare. Dopo quel terribile venerdì di passione e la tragica fine, Gesù oltrepassa l’abisso oscuro della morte. La fede cristiana ama contemplare “la discesa agli inferi” come un momento fondamentale della “Historia Salutis”. Un antico scrittore (Sant’Efrem il Siro, IV sec.) spingerà arditamente la sua meditazione fino a personificare la Morte, immaginandola come un’orca che inesorabilmente tutto divora. Anche Gesù è stato una vittima delle sue fauci. Ma la Morte, incauta, non immaginava che in Gesù «era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4). Ciò gli è stato fatale: ingoiando la carne assunta dal Verbo, ha ingoiato un veleno. Con il linguaggio paradossale della mistica è affermato il mistero dell’incarnazione. Era necessario che il Verbo di Dio si facesse carne per poter “avvelenare” la Morte e comunicare agli uomini, coi quali «ha in comune la carne e il sangue» (Ebr 2,14), la vita. Il Cristo, Dio Uomo, ormai è entrato nello splendore della gloria. L’Apocalisse lo canta come l’Agnello seduto alla destra del Padre circondato da miriadi di miriadi e migliaia di migliaia di creature celesti al cui canto si uniscono cielo e terra, inferi e mare (cfr. Ap 12,5-14). E lui, il Verbo incarnato, l’Agnello, il Risorto vincitore, che fa? Potrebbe prendere la parola al cospetto dei sapienti e dei filosofi che indagano sull’Oltre e discutono sui destini del creato… Potrebbe prendersi la rivincita e presentarsi all’adunanza del sinedrio e ai capi del popolo che l’hanno crocifisso… ma il Risorto ritorna in Galilea, sulle rive del lago, in cerca degli amici che sono tornati al mestiere di prima: gente rude, che odora di pesce, con mani callose. Gesù cerca gli amici, anzi la relazione: chiede premurosamente se hanno da mangiare. Prepara un fuoco. Ma loro non riescono a riconoscerlo; non è colpa della tenue nebbia mattutina, né della distanza. È che sono “lenti a credere”. Gesù non si arrende. Per farsi riconoscere compie gesti di convivialità: spezza un pane, offre del pesce. Poi si rivolge a Pietro e pronuncia la più umana delle domande: «Mi ami?». Non chiede una volta sola; e non si accontenta di una sola risposta. Insiste. «Mi ami?». Cerca un rapporto profondo e vi dedica – lui, il Risorto! – attenzione, tempo e cura: pare sia per lui l’urgenza più sentita, la più necessaria, la più impellente.
In questi giorni, mentre va concludendosi l’anno pastorale, si incominciano a disegnare i programmi per il prossimo anno. Ci sono “le cose di sempre”, e va bene, nel contempo si affrontano le nuove sfide, si cercano risposte, si prova ad individuare idee forza… ma la prima e fondamentale preoccupazione che precede ogni altra indicazione, sta certamente nella cura delle relazioni. Ciò vale per ciascuno e per tutta la comunità nel suo insieme. Vale per il quotidiano come per i grandi appuntamenti con la vita: è un atteggiamento che matura “da dentro” e diventa stile, virtù, “classe”! Questa personalizzazione qualifica anzitutto il rapporto con Cristo. Si badi bene: non è un invito all’individualismo intimista, ma si tratta di una esigenza di verità e di profondità (da non dare mai per scontata). Si fanno molte cose per abitudine; molte altre perché imbarcati nel collettivo; qualcun’altra ancora per una inerzia scambiata per tradizione.
«Mi ami tu?». Domanda a cui ogni cristiano deve rispondere. Personalmente. Da questa risposta tutto partirà nuovamente. Anche i rapporti dentro e attorno alla comunità cristiana reclamano verità e profondità. Inevitabile la riflessione sull’accoglienza in tutte le sue sfaccettature. Si accoglie l’altro, non paternalisticamente, per benigna concessione o per presunzione: «Vieni sotto il mio tetto; ti proteggerò!». L’altro lo si accoglie perché è un dono, una ricchezza: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (cfr. Is 43,4). Ritorno ad una preghiera che dice così: «Signore, che io sappia accettare il rischio di spalancare le mie braccia: così creerò spazio in me, ma per l’altro… che l’altro si senta in casa sua in casa mia. E nello scambievole abbraccio nessuno resterà intatto, perché ognuno arricchirà l’altro e ambedue resteranno se stessi». Siamo in sintonia con l’Esortazione Apostolica di Papa Francesco “Evangelii Gaudium”, bussola per il nostro cammino. Ripropongo la meditazione del n. 47. Eccone qualche scheggia: «La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre… Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità… Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa». «Mi ami tu?». «Sì, tu lo sai che ti voglio bene». Ecco, il prerequisito, l’ante omnia di ogni programmazione.

+ Andrea Turazzi