Canto mariano alla fine della messa
Non prescritto ma consuetudine diffusa
Domanda: Al termine della celebrazione eucaristica spesso si effettua un canto alla Madonna: è obbligatorio o consigliato? Perché? (Luigi)
L’importanza del canto sacro nella celebrazione eucaristica è un dato certo (cf. SC 112). Così come lo è la norma liturgica di iniziare normalmente la Messa con un canto, detto appunto iniziale o d’ingresso la cui funzione “è quella di dare inizio alla celebrazione, favorire l’unione dei fedeli riuniti, introdurre il loro spirito nel mistero del tempo liturgico o della festività, e accompagnare la processione del sacerdote e dei ministri” (OGMR 47).
Alla conclusione della celebrazione, invece, non viene prescritto nessun canto. Infatti, i “Riti di conclusione” prevedono brevi avvisi…; il saluto e la benedizione del sacerdote…; il congedo del popolo da parte del diacono o del sacerdote, “perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio”; il bacio dell’altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l’inchino profondo all’altare da parte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri (OGMR 90, 168, 169). Stando a queste norme, non si dovrebbe eseguire al termine della celebrazione eucaristica né un canto mariano né un qualsiasi altro canto. Tuttavia, è una consuetudine ormai diffusa in molti posti che si esegua un canto alla fine della celebrazione. Considerando che motivazioni sfavorevoli o contrarie ad un canto finale non ce ne sono, rimane il fatto che è comunque un controsenso congedare l’assemblea, invitandola ad “andare in pace” per tornare alle proprie “opere di bene lodando e benedicendo Dio”, e nello stesso tempo suggerire di fermarsi per eseguire un canto. Per tale motivo, qualcuno propende semplicemente per l’eliminazione del “canto finale”. Altri, invece, propongono tre possibili soluzioni: affidare la chiusura della celebrazione solo al coro, che eseguirebbe un brano adatto; oppure, dopo la benedizione e prima del congedo, invitare al canto l’assemblea; oppure, l’organista esegue un brano d’organo conveniente e brillante che accompagna l’uscita dei fedeli, dando così un tocco di festa in più.
Nel caso in cui si mantiene un canto finale, eseguire costantemente un canto alla Madonna al termine della celebrazione non rappresenta una soluzione ottimale. Tale canto è ammissibile solo nelle Messe celebrate in onore di Maria o nella ricorrenza di una memoria, festa o solennità a Lei dedicata. Nelle altre celebrazioni eucaristiche si potrebbe utilizzare qualche volta il Magnificat come canto di ringraziamento alla comunione: è adatto per contenuto e forma.
Una cosa è la devozione alla Madonna, un’altra è la celebrazione liturgica, che è normativa. Anche perché la memoria della Madonna è già integrata armoniosamente nel rito stesso della Messa, nel rispetto delle regole interne alla liturgia. Infatti, la supplichiamo nell’atto penitenziale, insieme agli angeli, ai santi e a tutti i fratelli e sorelle riuniti con noi, affinché preghi per noi il Signore nostro Dio. Nelle intercessioni di tutte le preghiere eucaristiche esprimiamo il nostro anelito a “prendere parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio…”.
don Raymond Nkindji Samuangala, marzo 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti
Il linguaggio dei segni
I gesti del celebrante alla preghiera eucaristica
Domanda: Premetto che vado spesso a Messa in diversi posti. La mia domanda è questa: se tutti i gesti hanno un significato durante la Messa perché allora voi sacerdoti alzate in modi diversi l’ostia e il vino dopo averli benedetti? È un gesto libero oppure ha un significato preciso? (Anna)
In ogni celebrazione anche i gesti del celebrante rientrano nell’insieme del linguaggio liturgico e sono portatori di un preciso significato. Per questo, “I gesti e l’atteggiamento del corpo sia del sacerdote, del diacono e dei ministri, sia del popolo devono tendere a far sì che tutta la celebrazione risplenda per decoro e per nobile semplicità, che si colga il vero e pieno significato delle sue diverse parti e si favorisca la partecipazione di tutti. Si dovrà prestare attenzione affinché le norme, stabilite da questo Ordinamento generale e dalla prassi secolare del Rito romano, contribuiscano al bene spirituale comune del popolo di Dio, più che al gusto personale o all’arbitrio” (OGMR, 42). Il gesto di cui parla la nostra lettrice fa parte di un insieme di tre gesti che il celebrante compie durante la preghiera eucaristica. Le indicazioni del Messale sono così precise che dovrebbe risultarne una uniformità di esecuzione.
Il primo viene prescritto alla “presentazione dei doni”. È un gesto rivolto a Dio con l’intento di presentargli appunto il pane e il vino, che non sono ancora diventati Corpo e Sangue di Cristo. Pertanto, il gesto che li accompagna non va enfatizzato. È un gesto semplice e sobrio di “presentazione”, per invocare la potenza di Dio che li possa trasformare in sacrificio di Cristo. Il Messale prescrive: Il sacerdote, stando all’altare, prende la patena con il pane e, tenendola con entrambe le mani un po’ sollevata sull’altare, dice sottovoce… Il sacerdote prende il calice e, tenendolo con entrambe le mani un po’ sollevato sull’altare, dice sottovoce… Da notare, la patena con il pane e il calice del vino vanno tenuti con entrambe le mani. Andrebbe quindi evitata la banalizzazione dei gesti o il farli con una sola mano.
Il secondo gesto riguarda il pane e il vino diventati Corpo e Sangue di Cristo, mediante l’invocazione dello Spirito Santo su di essi. È un gesto di presentazione rivolto non a Dio ma al suo popolo riunito, che vi riconosce e vi adora quella presenza reale, vera e permanente del Signore Gesù. Questo gesto, quindi, è diverso dal primo, per il suo destinatario, e va fatto diversamente: con le specie eucaristiche sollevate dall’altare e allungate verso l’assemblea. Il Messale Romano prescrive, in effetti, che il celebrante presenta al popolo l’ostia consacrata, la depone sulla patena e genuflette in adorazione. Poi, presenta al popolo il calice, lo depone sul corporale e genuflette in adorazione. Da notare la genuflessione per adorare il Signore presente nel Santissimo, gesto assente nel primo caso. Alla stessa adorazione è invitato il popolo al quale vengono presentati sia l’ostia che il vino consacrati. Perciò, se non si è in ginocchio ma in piedi si dovrebbe fare un inchino di adorazione mentre il sacerdote genuflette, e tutti dovrebbero guardare le specie eucaristiche mentre sono presentate.
Il terzo gesto si chiama dossologia,in quanto rappresenta la grande conclusione della preghiera eucaristica, che dà “ogni onore e gloria” a Dio Padre onnipotente nell’unità dello Spirito Santo, per/con/in Cristo. È il gesto culmine, che andrebbe sottolineato possibilmente con il canto e nella modalità di esecuzione, che presenta al Padre più in alto possibile il Corpo e il Sangue di Cristo, “Uomo Vivente” per eccellenza che dà gloria al Padre con il suo sacrificio. Nel Messale questo gesto di elevazione non è più limitato, ma si dice semplicemente che il celebrante prende sia la patena con l’ostia sia il calice ed elevandoli insieme canta o dice la dossologia.
Dunque, esiste una progressione nell’esecuzione dei tre gesti, secondo il significato intrinseco a ciascuno di loro e in funzione del loro destinatario.
don Raymond Nkindji Samuangala, febbraio 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti
Liturgia della parola e incontro di preghiera
Domanda: Mi capita talvolta di organizzare per il gruppo a cui appartengo una veglia di preghiera. Un mio collega, invece, si è trovato nella chiesa parrocchiale a dover preparare una liturgia della Parola (si dice così?). Ci sono dei criteri da seguire per una e per l’altra celebrazione? L’incontro di preghiera che organizzo per il gruppo e l’incontro di preghiera in chiesa penso sono di diversa natura: ci sono regole e criteri da osservare? Esistono sussidi? Grazie. (Stefania)
La distinzione di fondo si fa tra liturgia e ciò che non lo è. Intendendo per “ciò che non lo è” non un nulla o un senza valore, ma un diverso dalla liturgia. Già il concilio Vaticano II parla di “pii esercizi” o “sacri esercizi”, nel loro rapporto con la liturgia (cfr. SC 13).
Ad oggi, il documento base di riferimento, che ha raccolto e attuato la norma conciliare è il Direttorio su Pietà Popolare e Liturgia (2022), della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. In esso vengono dati i Principi e orientamenti per disciplinare i nessi che intercorrono tra Liturgia e pietà popolare, riaffermando “il primato della liturgia”. Infatti, “l’eminenza della Liturgia rispetto ad ogni altra possibile e legittima forma di preghiera cristiana deve trovare riscontro nella coscienza dei fedeli: se le azioni sacramentali (liturgiche) sono necessarie per vivere in Cristo, le forme della pietà popolare appartengono invece all’ambito del facoltativo. Prova veneranda è il precetto di partecipare alla Messa domenicale, mentre nessun obbligo ha mai riguardato i pii esercizi, per quanto raccomandati e diffusi, i quali possono tuttavia essere assunti con carattere obbligatorio da comunità (gruppi) o singoli fedeli” (n. 11). Nello stesso tempo il Direttorio precisa “che non siano trascurate altre forme di pietà del popolo cristiano e il loro fruttuoso apporto per vivere uniti a Cristo, nella Chiesa, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II” (n. 1). Pertanto, “la facoltatività dei pii esercizi non deve quindi significare scarsa considerazione né disprezzo di essi. La via da seguire è quella di valorizzare correttamente e sapientemente le non poche ricchezze della pietà popolare, le potenzialità che possiede, l’impegno di vita cristiana che sa suscitare” (n. 12).
I criteri orientativi da seguire sono dati dal n. 13 che afferma: “la differenza oggettiva tra i pii esercizi e le pratiche di devozione rispetto alla Liturgia deve trovare visibilità nell’espressione cultuale. Ciò significa la non commistione delle formule proprie di pii esercizi con le azioni liturgiche; gli atti di pietà e di devozione trovano il loro spazio al di fuori della celebrazione dell’Eucaristia e degli altri sacramenti. Da una parte, si deve pertanto evitare la sovrapposizione, poiché il linguaggio, il ritmo, l’andamento, gli accenti teologici della pietà popolare si differenziano dai corrispondenti delle azioni liturgiche. Similmente, è da superare, dove è il caso, la concorrenza o la contrapposizione con le azioni liturgiche: va salvaguardata la precedenza da dare alla domenica, alla solennità, ai tempi e giorni liturgici. Dall’altra parte, si eviti di apportare modalità di “celebrazione liturgica” ai pii esercizi, che debbono conservare il loro stile, la loro semplicità, il proprio linguaggio”. Quindi, i pii esercizi e le pratiche di devozione non sono né da eliminare né da disprezzare nella vita dei fedeli. Essi devono essere valorizzati ed armonizzati con la liturgia, che rimane culmen et fons, “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (SC 10).
don Raymond Nkindji Samuangala, gennaio 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti
Celebrazioni domenicali in assenza del presbitero
Domanda: Parrocchie sempre più piccole e scarsità di presbiteri. Anche nella nostra Diocesi, per le necessità imposte da nuovi assetti pastorali, ci si chiede se sia opportuno favorire liturgie domenicali senza presbitero, oppure vietarle per convergere in un’unica celebrazione. Nel primo caso si valorizza l’identità della piccola comunità; nel secondo si coltiva l’idea e l’esperienza di una Chiesa più ampia. Che ne pensa? (Francesco)
Il Concilio Vaticano II, nell’intento di permettere ai fedeli di attingere più abbondantemente alla fonte della Parola di Dio, prescriveva già: “Si promuova la celebrazione della Parola di Dio, alla vigilia delle feste più solenni, in alcune ferie dell’avvento e della quaresima, nelle domeniche e nelle feste, soprattutto nei luoghi dove manca il sacerdote; nel qual caso diriga la celebrazione un diacono o altra persona delegata dal vescovo” (SC 35). Difronte alla difficoltà o all’impossibilità di celebrare l’eucaristia, dovuta a ragioni da non ridurre solo alla scarsità di presbiteri, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha emanato il Direttorio Christi Ecclesia (1988) per disciplinare queste celebrazioni e dare le norme per la loro organizzazione. Recependo tali norme, la nostra Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna ha elaborato il documento Radunati nel giorno del Signore nel quale dà gli orientamenti pastorali per questo tipo di celebrazioni. In tutti i casi, vanno considerate alcune condizioni essenziali (cf. Christi Ecclesia). Si consideri anzitutto se i fedeli non possano recarsi alla chiesa di un luogo vicino. La soluzione è da raccomandare (n. 18). Quando ciò non è possibile, è bene che non manchi ai fedeli il nutrimento della Parola di Dio, per cui è molto raccomandata la celebrazione della Parola, a cui può seguire la Santa Comunione (n. 20), o la celebrazione della liturgia delle ore. Occorre che i fedeli percepiscano chiaramente che tali celebrazioni hanno carattere di supplenza e non possono essere fatte per “comodità”. Non si possono fare là dove la sera precedente si è celebrata l’eucarestia (n. 21). Si eviti, quindi, ogni confusione tra queste celebrazioni e la S. Messa; esse non devono togliere ma aumentare nei fedeli il desiderio della S. Messa (n. 22). Pertanto, c’è necessità di pregare «affinché (il Signore) moltiplichi i dispensatori dei suoi misteri e li renda perseveranti nel suo amore» (n. 23). Per dirigere queste riunioni domenicali siano chiamati i diaconi, gli unici che possono proclamare il Vangelo, tenere l’omelia e distribuire l’eucaristia (n. 29). In loro assenza, possono essere scelti i ministri istituiti per la guida della preghiera. Altrimenti, possono essere designati altri laici preparati, uomini e donne, ad esercitare questo incarico a tempo determinato (cf. n. 30). In sintesi, queste celebrazioni servono là dove risulti l’impossibilità di celebrare l’eucaristia. Tuttavia, esse non si possono sostituire alla S. Messa, da preferire sempre. Pertanto, viene incoraggiato chi può a convergere nel luogo vicino dove viene celebrata l’eucaristia.
di don Raymond Nkindji Samuangala, dicembre 2022
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti
Linguaggio simbolico e didascalie
Domanda: Si dice che i simboli sono una forma di linguaggio assai forte. Tuttavia, molti segni della liturgia restano oscuri per tante persone. Ci sono preti che li spiegano, spesso con esiti positivi; altre volte le spiegazioni affaticano e sbiadiscono la celebrazione. Che ne pensa delle didascalie del celebrante soprattutto durante la Messa? (Ilaria)
L’agire simbolico caratterizza essenzialmente l’atto liturgico. L’ha ricordato papa Francesco nell’ultima lettera apostolica pubblicata il 29 giugno scorso sulla formazione liturgica del Popolo di Dio Desiderio desideravi: “La liturgia è fatta di cose che sono esattamente l’opposto di astrazioni spirituali: pane, vino, olio, acqua, profumo, fuoco, cenere, pietra, stoffa, colori, corpo, parole, suoni, silenzi, gesti, spazio, movimento, azione, ordine, tempo, luce” (Dd 42).
Comprendere (non dico capire) tale linguaggio è condizione fondamentale per quella vera “partecipazione attiva, cosciente e fruttuosa” cara al Vaticano II. Infatti, “la conoscenza del mistero di Cristo, questione decisiva per la nostra vita, non consiste in una assimilazione mentale di un’idea, ma in un reale coinvolgimento esistenziale con la sua persona. In tal senso la liturgia non riguarda la “conoscenza” e il suo scopo non è primariamente pedagogico (pur avendo un grande valore pedagogico: cfr. Sacrosanctum Concilium, 33)… La pienezza della nostra formazione è la conformazione a Cristo. Ripeto: non si tratta di un processo mentale, astratto, ma di diventare Lui, l’essere membro del Corpo di Cristo” (Dd 41). Questo coinvolgimento esistenziale accade per via sacramentale, attraverso il linguaggio simbolico proprio della liturgia.
La riforma liturgica del Vaticano II ha inteso ricuperare la cosiddetta “liturgia dei Padri”, non solo perché è quella che ormai è diventata comune nella Chiesa, ma anche per le sue caratteristiche: “brevità solenne, semplicità precisa, sobria, non verbosa, poco sentimentale; disposizione chiara e lucida; grandezza sacra e umana insieme, spirituale e di gran valore letterario” (Burkhard Neunheuser). La dicitura “liturgia dei padri” utilizzata sia dalle riforme dei secoli XI-XV che dal Concilio di Trento, e che il Vaticano II ha inteso ripristinare, si riferisce alla liturgia romana “classica” o “pura” sviluppatasi tra i secoli V-VIII, esempio perfetto di liturgia inculturata.
Si può capire perché lo stesso Concilio Vaticano II stabilisce che “i riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34). Altrove precisa che, per facilitare la partecipazione pia e attiva dei fedeli, “i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano semplificati; si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti, siano ristabiliti, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna o necessaria” (SC 50).
Dunque, i riti della celebrazione liturgica non dovrebbero necessitare di didascalie, in quanto la loro comprensione dovrebbe essere diretta. Tuttavia, considerando la difficoltà dell’uomo moderno a “confrontarsi con l’agire simbolico” (Dd 27) e la necessità che egli “deve diventare nuovamente capace di simboli” (Romano Guardini), il Concilio ha concesso di prevedere nei testi stessi dei riti, “quando necessario, brevi didascalie composte con formule prestabilite o con parole equivalenti e destinate a essere recitate dal sacerdote o dal ministro competente nei momenti più opportuni” (SC 35).
Non si tratta, infatti, di rinunciare al linguaggio simbolico: “non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo. Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare, perché nell’uomo questa dimensione … è costitutiva” (Dd 44). La cosa migliore resta la formazione liturgica!
don Raymond Nkindji Samuangala, novembre 2022
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti
Perchè la benedizione al diacono prima della proclamazione del Vangelo?
Domanda: Perché il diacono, essendo ministro ordinato, prima di proclamare il vangelo, deve chiedere la benedizione al vescovo o al sacerdote che presiede l’Eucarestia? Anche i ministri lettori devono chiedere la benedizione al celebrante? (Pierluigi)
La richiesta di benedizione prima del Vangelo da parte del diacono è prescritta sia dal Cerimoniale dei Vescovi (CdV 140) sia dal Messale Romano (OGMR, 175). Va precisato però che “non solo il diacono, ma anche il presbitero, anche se concelebra, chiede al vescovo e da lui riceve la benedizione” (CdV 173). Invece il Messale Romano non prevede lo stesso gesto per i ministri che proclamano le altre letture, come avviene in alcuni riti, come il Rito Ambrosiano. In effetti, “il compito di proclamare le letture, secondo la tradizione, non è competenza specifica di colui che presiede, ma di altri ministri. Le letture, quindi, siano proclamate da un lettore, il Vangelo sia invece proclamato dal diacono o, in sua assenza, da un altro sacerdote. Se non è presente un diacono o un altro sacerdote, lo stesso sacerdote celebrante legga il Vangelo; e se manca un lettore idoneo, il sacerdote celebrante proclami anche le altre letture” (OGMR, 59).
Tuttavia, sia il CdV, sia il Messale Romano non esplicitano il perché di questa richiesta di benedizione al Vescovo (o al sacerdote) da parte di altri ministri ordinati quali il diacono e il presbitero. Ritengo che la risposta alla nostra domanda vada cercata nella teologia cattolica del sacerdozio ministeriale e, quindi, nell’esercizio di esso. La dottrina della Chiesa cattolica insegna che l’unica missione divina di Cristo è affidata ai vescovi, attraverso la successione apostolica (cf. LG, 18-24). Come si sa, tale missione si esplicita nella triplice funzione di insegnare, santificare e governare. “I vescovi, quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui è data ogni potestà in cielo e in terra, la missione d’insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza” (LG, 24).
“Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo (cf. anche Vat. II, Decreto Christus Dominus 12). I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede…, dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo” (LG 25), insigniti “della pienezza del sacramento dell’ordine” (LG 26). I presbiteri, invece, non possiedono l’apice del sacerdozio e dipendono dai vescovi nell’esercizio della loro potestà (cf. LG 28), sono a loro congiunti nella dignità sacerdotale, benché saggi collaboratori dell’ordine episcopale e suoi aiuti e strumenti…” (CdV 20). “Infatti, i vescovi hanno la pienezza del sacramento dell’ordine; e da loro dipendono, nell’esercizio della loro potestà, sia i presbiteri, che sono stati anch’essi consacrati veri sacerdoti del Nuovo Testamento perché siano prudenti cooperatori dell’ordine episcopale, sia i diaconi, che in unione col vescovo ed al servizio del suo presbiterio sono destinati al ministero del popolo di Dio. I vescovi, perciò, sono i principali dispensatori dei misteri di Dio e nello stesso tempo organizzatori, promotori e custodi della vita liturgica nella Chiesa loro affidata” (Christus Dominus 15).
Tutta questa dottrina, e il fatto che “ogni legittima celebrazione dell’eucaristia è diretta dal vescovo, al quale è demandato il compito di prestare e regolare il culto della religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del Signore e le leggi della Chiesa…” (LG 26; cf. OGMR 92), ci fanno capire il senso di quella richiesta di benedizione al Vescovo da parte del diacono e del sacerdote. Essa esprime quella partecipazione al ministero di cui il vescovo ha la pienezza ed è il liturgo della Diocesi, e nello stesso tempo la comunione all’esercizio dello stesso ministero, esprimendo così “con maggior chiarezza il mistero della Chiesa, “sacramento di unità” (OGMR, 92).
don Raymond Nkindji Samuangala, ottobre 2022
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti