Il pane e il calice della vita eterna

L’offerta di Abramo e Melchìsedek

Nella chiesa di Sant’Agostino in Pennabilli, accanto all’affresco della Vergine in trono (nota come Madonna delle Grazie), sono stati rinvenuti nel 1989 alcuni affreschi, risalenti all’inizio del XV secolo, che rappresentano una piccola catechesi sul mistero Eucaristico. Il ciclo di affreschi può essere letto tanto dal basso verso l’alto che viceversa. Seguiamo, nella nostra lettura l’ordine cronologico, partendo quindi dal basso troviamo: Abramo offre la decima (pane e vino) a Melchìsedek, re di Salem; l’ultima cena; il miracolo della mula, operato da sant’Antonio a Rimini, e il miracolo dell’ostia fritta. Ci soffermiamo sul primo affresco volendo scandagliare, in questo primo articolo, le radici del Mistero che ci occuperà lungo tutto quest’anno, quello del Corpo e del Sangue di Cristo, luogo in cui la Presenza di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità permane Reale e viva nei secoli e nella storia.
La prima rivelazione del mistero eucaristico, si presenta all’interno di un fatto storico, almeno secondo la narrazione di Genesi 14. Ai versetti 17 e seguenti si narra, infatti, della vittoria di Abramo sugli eserciti stranieri che avevano assalito Sodoma e fatto prigioniero Lot, nipote di Abramo. Mentre Abramo torna vittorioso con i suoi 318 soldati (Gen 15) gli si fa incontro – oltre al re di Sodoma – un misterioso re di Salem di nome Melchìsedek, sacerdote del Dio altissimo, il quale offre in sacrificio pane e vino.
Ogni singolo vocabolo che caratterizza questo re, ha il sapore forte della profezia. Anzitutto Melchìsedek è l’insieme di due nomi e cioè melek, che significa re e sedeqà, che significa giustizia. Questo sovrano, poi, che porta il nome di re di giustizia, è anche re di Salem, cioè re di pace. Le allusioni messianiche sono evidenti: sotto le spoglie di questo misterioso sovrano si cela la presenza di Cristo, vero re di giustizia e di pace.
Tutto questo nell’affresco pennese è evidentissimo. Abramo è in ginocchio, sulla destra, la schiera dei suoi 318 compagni si perde all’orizzonte conferendo alla scena una certa profondità prospettica. Uno dei primi, dietro al patriarca (forse lo stesso Lot) indica sorpreso il misterioso personaggio. Abramo reca con sé delle anfore, una bianca e una ocra (un tempo forse ocra rossa), e una cesta con del pane. Si tratta della decima del suo bottino di guerra, ma anche allusione al sacrificio che Melchìsedek compirà di lì a poco. Che Abramo paghi la decima a questo misterioso personaggio non sfuggì ai primi cristiani. Spiega, infatti, l’autore della lettera agli Ebrei (Ebr 7,1-4): Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. […] Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre. Considerate dunque quanto sia grande costui, al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino. Che in lui il popolo sia invitato a riconoscere Cristo è dato anche dalle due anfore le quali ricordano l’offerta portata all’altare: le ampolle dell’acqua e del vino, elementi che transustanziati, diverranno per noi quel sangue e quell’acqua sgorgati dal costato di Cristo dopo la trafittura della lancia. Non a caso, del resto, lance, portate dai soldati di Abramo, svettano nel cielo. Già da questi primi particolari vediamo il continuo rimando alla celebrazione eucaristica di quest’opera pennese. Il Corpus degli affreschi è del 400, sappiamo che nel 1489 questa Vergine lacrimò miracolosamente e che, 57 anni prima, il 16 novembre 1432, l’altare fu consacrato da Giovanni Secchiani (Seclani), vescovo del Montefeltro. Dunque nel 1483, quando Raffaello realizza, con la sua bottega, un affresco col medesimo soggetto si lascia quasi certamente ispirare da questo modello almeno nella foggia degli abiti. Raffaello fa indossare ai due personaggi principali dell’esercito, Abramo e Lot, copricapi e armature simili a quelli del nostro autore anonimo, elmi di ferro molto diffusi nell’Europa tra l’XI e il XV secolo. Sono abiti contemporanei mediante i quali l’artista ha voluto attualizzare nel suo oggi il mistero dell’Incontro fra Abramo e Melchìsedek.
Sulla parte sinistra dell’affresco, Melchìsedek indossa invece un turbante orientale e un abito rosso porpora. Non è solo, ma sei personaggi gli fanno corona e sembrano proprio rimandare a Cristo e ai suoi discepoli. Il re di Salem alza la mano benedicente mentre tiene a tracolla il corno dell’unzione, rimando esplicito alla parola Mashiach, cioè Messia che significa appunto Unto. In questo primo sacrificio offerto a Dio da un personaggio misterioso si adombra evidentemente un altro sacrificio, quello eucaristico offerto da Cristo al Padre come segno della vittoria ormai definitiva sul nemico per eccellenza, cioè il Maligno e con esso, il peccato e la morte. Non a caso questo episodio entra nel Canone romano, cioè in quella preghiera Eucaristica che, pur con sfumature diverse, è rimasta invariata in tutto il mondo fino al Concilio Vaticano II.
Le parole del Canone sono a tutt’oggi un prezioso commento a questo affresco. Quanto qui affermato in latino, che poteva risultare poco comprensibile al popolo, veniva richiamato spiegato e illustrato sulle pareti di questo altare: “Offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna, calice dell’eterna salvezza. Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchìsedek, tuo sommo sacerdote”. Il pane santo della vita eterna è lì celato nell’offerta di Abramo, così pure il calice dell’eterna salvezza è adombrato dall’anfora in ocra rossa che svetta sola e centrale in tutto l’affresco.

suor Gloria Maria Riva, settembre 2023