L’ultimo Paolo

“Andare con Cristo o restare?”

Immagine: Rembrandt, L’apostolo Paolo in prigione, 1627, olio su pannello 72,8 x 60,3 cm Staatsgalerie Stuttgart

Il libro degli Atti degli Apostoli non ha un termine. Nei processi occorsi a Paolo prima a Cesarea e poi a Gerusalemme, non si trovarono nei suoi confronti accuse degne di nota. Tuttavia, poiché le accuse dei giudei erano sempre più incalzanti, Paolo si appellò a Cesare cosicché venne condotto a Roma. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia. Dopo tre giorni, egli convocò a sé i più in vista tra i Giudei… (Atti 28,16 ss).
Paolo espone ai giudei di Roma la propria condizione e i motivi per i quali si appellò a Cesare. Nessuno mostrò di conoscerlo, né di conoscere la nuova dottrina del Vangelo, così Paolo li invitò a tornare per parlare loro della speranza d’Israele. Essi accettarono di buon grado ma, dopo averlo ascoltato, alcuni credettero mentre altri mostrarono inimicizia. Anche nelle ultime battute degli Atti si è di fronte al medesimo paradosso: nell’incontro con i pagani (tanto con gli indigeni di Malta dove aveva fatto naufragio che con i soldati romani) Paolo trova accoglienza e simpatia; nel rapporto con i suoi correligionari trova, invece, diffidenza e scetticismo. Paolo cita qui un misterioso passo di Isaia che afferma come Dio permetta, spesso, cecità e sordità nei credenti per poterli salvare: il cuore di questo popolo si è indurito: e hanno ascoltato di mala voglia con gli orecchi; hanno chiuso i loro occhi per non vedere con gli occhi non ascoltare con gli orecchi, non comprendere nel loro cuore e non convertirsi, perché io li risani (cfr. Isaia 6,10). La storia, anche cristiana, ha spesso registrato lo scandalo dell’indurimento del cuore da parte dei credenti, eppure Dio permette la cecità perché se alcuni conoscessero la portata della loro colpa, per orgoglio, non riuscirebbero a portarne il peso. Lasciandoli nell’obnubilamento, Dio può esercitare su di essi la sua misericordia.
Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione. I termini dell’attesa per la conferma delle accuse erano, nel diritto romano, 18 mesi (9 per gli italici), quindi Paolo fu prosciolto dalle accuse e visse in libertà, stringendo una forte amicizia con la comunità cristiana di Roma. A loro espresse il desiderio di essere aiutato ad andare in Spagna (cfr. Rm 15, 24). Non gli fu possibile perché venne arrestato, senza preavviso a Troade, dove nemmeno ebbe il tempo di prendere gli effetti personali. Scrisse infatti a Timoteo (2 Tm 4,3): Quando verrai porta il mantello che ho lasciato a Troade da Carpo, e i libri, specialmente le pergamene. È proprio al discepolo prediletto che l’Apostolo rivela la sua amarezza (2 Tm 4,14-16): Nella mia prima difesa nessuno si è trovato al mio fianco, ma tutti mi hanno abbandonato; ciò non venga loro imputato!
Queste parole rappresentano il testamento di Paolo, simili a quel «tutto è compiuto» e quel «perdona loro perché non sanno quello che fanno» che Cristo pronunciò sulla croce. Rembrandt ci permette di entrare nell’ultima prigione di Paolo. Non è l’unica opera che l’artista dedica all’Apostolo al quale si sentiva legato da quel sentimento di amarezza e insieme di speranza che accompagnò Paolo negli ultimi anni. Una luce penetra nella stanza, lasciando indovinare le inferriate della prigione. Paolo è intento a scrivere le lettere dette della cattività: ai Filippesi; agli Efesini e ai Colossesi e a Timoteo (sicuramente la II lettera). Sono lettere appassionate che rivelano l’amore di Paolo per i suoi e il suo assillo quotidiano per le chiese.
Sul giaciglio scorgiamo il mantello e le pergamene che Timoteo gli aveva riportato da Troade, mentre altri elementi ci aiutano a penetrare i sentimenti dell’Apostolo. Le due mani: una sollevata alla bocca accentua l’aspetto dolente e pensoso del Santo, l’altra regge inerte la penna, quasi impossibilitata a scrivere ancora. In primo piano una spada e un piede scalzo, poggiato con il suo sandalo sulla roccia, narrano dell’imminente martirio e del radicamento di Paolo nella Roccia che è Cristo (cfr. 1 Cor 10,4). Proprio ai Filippesi in quelle ultime ore così egli si esprimeva: «Sono messo alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede (Fil 1,23-25)».
Così gli occhi arrossati del Paolo di Rembrandt ci consegnano al futuro: il libro degli Atti continua rilanciando ogni discepolo alla responsabilità di fronte alla fede. Le due tensioni espresse da Paolo, andare con Cristo o restare dando la vita per i fratelli, sono le tensioni che, ieri come oggi, devono animare gli amici del Signore.

suor Gloria Maria Riva, luglio-agosto 2023