Noi, la gente e i nostri preti

Propongo una riflessione che apparentemente ha poco a che fare con queste giornate di mezza estate, ma che potrà tornare utile alla ripresa del nuovo anno pastorale, quando, tornando dalle ferie, potremmo incontrare cambiamenti di sacerdoti e nuovi assetti pastorali. Potrei intitolare così: noi, la gente e i nostri preti. Credo che il lettore della rivista diocesana “Montefeltro” sia particolarmente attento a quanto succede in Diocesi. Poi, c’è la gente che pratica saltuariamente e prende come un servizio dovuto e scontato quello del prete, salvo poi accorgersi che la sua presenza è sempre meno diffusa. «Ogni campanile… un prete»: un’equazione impossibile. È da un pezzo che le cose stanno diversamente. Una delle conseguenze della secolarizzazione è sicuramente il calo delle vocazioni. Anche il fenomeno dell’urbanizzazione, con l’abbandono delle aree interne, porta ad una diversa distribuzione del clero.
Un tempo poteva accadere che il vescovo assegnasse ad un giovane prete una piccola parrocchia “per farsi le ossa” e col proposito poi di inviarlo ad una parrocchia più impegnativa, per non correre il rischio di intristirlo. Il giovane prete esce dal Seminario con grandi slanci e propositi, immaginando un popolo assetato di Vangelo… Può accadergli quel che succede al giovane attore che sogna di recitare il monologo di Amleto. A questo si prepara con anni di studio, di esercizi e di prove estenuanti (è il sogno di ogni attore di teatro). Poi arriva il sospirato debutto. Può accadere che il sipario si apra su una platea semideserta: dieci, dodici spettatori… Hai un bel da dire che Shakespeare resta sempre Shakespeare, ma il cuore di quel ragazzo avverte il contraccolpo e si raffredda. Si dice che la performance di un attore deve molto al suo pubblico.
Torno al giovane prete inviato in una piccola comunità di montagna, navigatore solitario alla conquista del piccolo gregge. Supponiamo voglia iniziare dai giovani. Ma i giovani dove sono? Se va bene tornano al fine settimana dall’università o dal lavoro in città o sulla riviera. Si presume che il Seminario metta sul campo un “prodotto finito”, cioè un prete con una solida formazione umana e spirituale, con sperimentate qualità di animatore e colto, pronto alle sfide. Inevitabile un primo interrogativo: a chi tocca “fare i preti”? Si dirà che il Seminario dispone di persone dedicate e specializzate a questo compito, un Seminario che ha strumenti, percorsi e verifiche ad hoc. Ma questo sarà sufficiente? Che posto occupa la comunità cristiana in tutto questo? Mi rendo sempre più conto dell’importanza delle comunità per la formazione permanente del presbitero: attenzione, interesse, preghiera. La comunità che è veramente tale è generativa di vocazioni e può contribuire allo sviluppo delle dimensioni vocazionali del prete. Non basta il Seminario, non basta la Facoltà teologica, ci vuole una comunità. Visti i tempi, sono sempre più auspicabili parrocchie che uniscano le forze, valorizzino ministeri, promuovano sinergie pastorali. A favore di questa svolta sta la consapevolezza della grazia battesimale che abilita ogni battezzato a rispondere alla sua personale e insostituibile chiamata alla corresponsabilità. La ricerca di nuovi assetti pastorali – fare unità pastorali, aggregando parrocchie vicine – si pensa possa essere risposta efficace alla scarsità delle vocazioni, ma non è la motivazione principale. La vera novità – ribadisco – è la riscoperta della consacrazione battesimale che fa dire ad ogni cristiano: mia è la Chiesa, mia la comunità in cui vivo. La vita e la missione della comunità dovrà essere sempre più partecipata dai laici. Con tutto ciò, i presbiteri sono insostituibili in ciò che è loro proprio, importanti e “itineranti” assumendo il servizio pastorale in più di una comunità e forse in un’intera vallata. Oggi il servizio pastorale è da intendersi soprattutto come impegno di evangelizzazione e di formazione.
In questo gioco d’insieme è importante “imparare la presenza del sacerdote su diverse parrocchie, superando campanilismi, moderando pretese e soprattutto dando prova di amore fraterno. Un sacerdote che lascia una comunità per servirne un’altra non è ceduto – per usare una metafora calcistica – alla squadra avversaria! Se di squadra vogliamo parlare, la squadra è la Diocesi, Chiesa particolare!
L’unità e la fraternità fra preti è un altro elemento di un nuovo modello di pastorale per il futuro. D’accordo, i sacerdoti diocesani non sono né monaci né religiosi che stanno in convento, ma una certa forma di fraternità può essere una risposta alla situazione.
Vedo nella fraternità sacerdotale anzitutto un “segno dei tempi”, una profezia, una parola da parte di Dio. In una società sempre più individualista, segnata dalle divisioni, dall’arrivismo, ecco uomini che si uniscono per servire, non dico per servire di più, ma per servire sicuramente meglio.
La fraternità sacerdotale fa bene al popolo di Dio. Senza nulla togliere alla sublimità dell’Ordine Sacro, la figura del prete risulterà, in un certo senso, ridimensionata. Perché? Non si va a Messa per simpatia per quel sacerdote o per l’altro, o per altre ragioni troppo umane… si va per il Signore!
La fraternità sacerdotale fa bene ai sacerdoti. La fraternità nulla toglie all’esercizio della paternità, allo spirito di iniziativa, al fruttificare dei talenti, diversi e complementari. La fraternità fa bene perché aiuta i sacerdoti a vivere l’amore reciproco, vincolo di perfezione, molla invincibile per l’evangelizzazione: «Guarda come si amano» (Tertulliano), o per dirla con le parole di Gesù: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).

+ Andrea Turazzi, luglio-agosto 2023