Sacerdoti, Re e Profeti (prima parte)

Una partecipazione a ciò che è proprio di Cristo

Domanda: A volte sento qualche prete dire con enfasi che noi laici siamo re (un titolo onorifico?), profeti (forse qualcuno lo è con la testimonianza), sacerdoti: ma in che senso? (Nino)

Questa affermazione va colta nel suo vero significato, per evitare ambiguità, fraintendimenti e anche banalizzazioni. È tutto il popolo di Dio, pastori e fedeli laici insieme, che è un popolo “sacerdotale, regale e profetico” (cf. Lumen Gentium 34-36). Ma va precisato che né il popolo né il singolo cristiano si attribuisce questa triplice funzione. Infatti, “Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito «Sacerdote, Profeta e Re». L’intero popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta le responsabilità di missione e di servizio che ne derivano” (Catechismo della Chiesa Cattolica 783). E ciò, mediante il Battesimo. Con l’unzione battesimale ci viene detto: “Dio onnipotente… vi consacra con il crisma della salvezza, perché inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, siate sempre membra del suo corpo per la vita eterna”.
Così inseriti in Cristo (che significa l’unto), diventiamo anche noi “unti”, “cristi”. È importante sottolineare il carattere della consacrazione. Nell’Antico Testamento sono i re, i sacerdoti e i profeti ad essere unti, consacrati. Nella Chiesa il battezzato è unto con il crisma perché venga interamente “investito” dalla potenza di Dio e diventi così Sua proprietà. Nelle acque del Giordano è Gesù ad essere consacrato con l’unzione sacerdotale, profetica e regale. Inviato dal Padre egli dà a tutti noi il dono di partecipare alla triplice consacrazione proprio grazie al Battesimo. Perciò, «Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato» (1 Pt 2,9).
Si tratta, quindi, di una “partecipazione” a ciò che è proprio di Cristo. Tale partecipazione avviene in due modalità: quella battesimale, che è comune a tutti, e quella ministeriale, esercitata da alcuni nell’unico popolo di Dio. Le due modalità non vanno né confuse (non si tratta di clericalizzare i laici né di laicizzare il clero) né contrapposte (esse sono complementari, espressione dell’unico servizio). Infatti, parlando del sacerdozio di tutto il popolo di Dio, il Concilio Vaticano II afferma: “Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano tra loro essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a modo suo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo” (LG 10).
È, perciò, un «sacerdozio» che è sempre unico: unico in Cristo e unico nella Chiesa; ma nella Chiesa esso esiste in una duplice dimensione. Le due dimensioni non dicono differenza di gradualità (sacerdozio «maggiore» nei ministri, o «minore» nei fedeli), ma esprimono due diversi modi di esistere o di essere (differenza essenziale) dell’unico sacerdozio di Cristo nella Chiesa. Una diversità che nasce: dal differente rapporto che il fedele e il ministro hanno con Cristo, in quanto il fedele è membro del Corpo di Cristo, il ministro invece ha la funzione di capo (vicario) nel Corpo di Cristo. E dal differente modo di origine del sacerdozio nella Chiesa: infatti il sacerdozio dei fedeli proviene da Cristo mediante il Battesimo (inserimento nel Corpo di Cristo) e quindi è universale, come universale è il Battesimo; quello del ministro invece è dato dal sacramento dell’Ordine (elevazione a capo nel Corpo di Cristo) e di conseguenza è particolare, perché particolare è la posizione del capo nei confronti dell’universalità del corpo. Esso però ha ragione di essere in quanto servizio al popolo di Dio: “Per voi infatti io sono vescovo, con voi sono cristiano” (Dai Discorsi di Sant’Agostino).
Il significato delle tre funzioni verrà sviluppato nel prossimo articolo.

don Raymond Nkindji Samuangala, novembre 2023
Assistente collaboratore Ufficio diocesano
per la Liturgia e i Ministri Istituiti